Il dimezzamento dell'esposizione in azioni ha consentito agli investitori di mitigare i contraccolpi dell'invasione russa dell'Ucraina, ma la debolezza del mercato azionario è antecedente agli eventi bellici di questi giorni. Lo preannunciava l'Outlook di inizio anno.
Le borse sperimentano un vistoso recupero – uno di quelli che i rialzisti storici generalmente accolgono con distacco – dopo che diversi indici hanno formalizzato la condizione di correzione in corso. È partita la caccia all’affare: tardiva?
Negli ultimi giorni hanno proliferato esempi storici di eventi geopolitici che hanno favorito la ripartenza dei listini, rivelandosi delle opportunità per gli investitori. Sfugge però un fattore chiave: tutte le ripartenze sono risultate immediate, e c’è sempre stato il contributo probabilmente determinante delle banche centrali. A ben vedere, l’unica, rilevante eccezione è stata la guerra dello Yom Kippur e l’embargo petrolifero dell’OPEC: sopraggiunti con un’inflazione negli Stati Uniti all’epoca al 7.4% - curioso: gli stessi livelli di oggi... – che dissuase la Fed dall’intervento, spianando la strada ad ulteriori avvitamenti verso il basso.
È vero che non tutte le correzioni (40 dal 1973, prima di quella recente) si tramutano in bear market (8 ribassi di entità superiore al 20% dai massimi); ma è altrettanto vero che i bear market nascono sempre come correzioni.
Gli investitori dovrebbero riflettere su un dato: il mercato è passato dalla modalità Buy on dips a quella Sell on dips. Prendendo in considerazione tutti i ribassi di singole azioni di entità superiore al 15% in un giorno, nei dieci anni prima di fine novembre scorso i ritorni sono stati mediamente positivi nei periodi successivi, anche escludendo il boom immediatamente conseguente al minimo di marzo 2020; negli ultimi tre mesi analoga strategia non ha pagato: con una performance media del -5% dopo due settimane, del -11.1% dopo un mese e del -16.2% dopo due mesi.
Non è un caso che proprio dalla fine di novembre il nostro modello di asset allocation abbia raccomandato una crescente cautela, con una esposizione in azioni passata dall’80 al 40% del portafoglio ideale.
È evidente che chi è entrato sul mercato a giugno e poi ad ottobre 2020, quando emersero genuini segnali di forza, anche al netto di una minore esposizione al rischio ha ben poco da temere: anche se si manifestasse un bear market, per esso intendendosi una contrazione superiore al 20% dai massimi, le quotazioni si riporterebbero sui livelli di inizio 2021. Ancora abbastanza da non intaccare le plusvalenze messe da parte.
Il problema è cosa accadrebbe dopo. Prendiamo la borsa europea, che ad inizio gennaio ha conseguito un obiettivo di lungo periodo esemplare. Si può ben tollerare un ulteriore sacrificio di prezzo, ma incombono delle red line di primaria rilevanza. Uno sfondamento di questa linea difensiva testimonierebbe la fragilità del mercato, e la prospettiva di un aggiustamento ulteriore, che non sarebbe opportuno vivere in prima persona.