Pandemia e Recovery Fund europeo: ecco come verrà speso!

Il governo Draghi, la variopinta maggioranza che lo sostiene, le parti sociali e la prima tranche del Recovery Fund: dopo tanto dibattito su come spendere questa maxi infornata di aiuti economici provenienti dall'Europa, e soprattutto su come non farsela ritirare indietro, signori, ecco a voi il PNRR!

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Alla prova dei fatti, sta finalmente per arrivare la prima tranche del Recovery Fund di cui si è discusso tanto, anzi, che è diventato il tema di economia politica almeno dalla primavera del 2020 a oggi.

Il piano di aiuti europei attivato per fare fronte all’emergenza pandemica, prevede infatti, caso più unico che raro, una parte d’investimenti a fondo perduto affiancata alle quote che andranno invece restituite.

Si tratta quindi di un’occasione ghiottissima per far tornare il Paese a ritmi di crescita e per risanare i settori più sofferenti dell’economia italiana, pubblici o privati che siano, purché in coerenza con alcune linee guida europee inderogabili sull’utilizzo di questi fondi.

Ma quindi, nei limiti di una precisione ancora parziale, dove verranno allocati questi finanziamenti? Andiamo a scoprire le intenzioni, i vincoli e gli orizzonti di questo grande investimento pubblico imminente!

Recovery Fund e PNRR: il legame a doppio filo

Per iniziare, da dove arriva questo Recovery Fund, o meglio, da dove vienel’idea di un fondo straordinario per fare fronte all’emergenza pandemica?

Bisogna tornare indietro al luglio del 2020, quando si arriva finalmente a una quadra dopo il tira e molla tra i Paesi europei più duramente colpiti dalla pandemia – l’Italia in testa – e i Paesi del Nord Europa considerati ‘frugali’ nei termini di rispetto storico dei parametri finanziari europei su bilancio, deficit e debito.

Il pomo della discordia, nei mesi precedenti quel fine luglio scorso, era stato il bacino cui attingere fondi pubblici europei per ridare respiro alle economie più martoriate dalla crisi – a quelle dei Paesi con i più alti tassi di contagio

I Paesi Bassi in particolare, rappresentati dal premier Mark Rutte (allora sotto elezioni) premevano per l’uso del MES, ma il Salva-Stati, che prevede interessi in ogni caso sufficienti ad assicurare un rientro economico all’Unione Europea, sembrò insostenibile a molti dei Paesi coinvolti.

Perciò, dopo un breve periodo in cui vennero vagliate altre soluzioni, come i cosiddetti Coronabond, in Commissione Europea si riuscì a trovare l’accordo tra le diverse sensibilità politiche coinvolte, e in particolare a risanare la spaccatura intercorsa fra Rutte e Conte.

E il risultato, quasi a dire il nome di battesimo, di questo accordo è NGEU (Next Generation EU), o per gli amici, appunto, Recovery Fund.

Un fondo europeo comune, dunque, approvato al termine di quel vertice già citato (17-21 luglio 2020) e di cui si è stabilita la quota che spetterà a ciascun Paese; un fondo europeo riferito al periodo 2021-2026, in parte da restituire e in parte a fondo perduto.

Se, però, il Recovery Fund prevede quest’anomalia nel finanziamento, dettata dalla straordinarietà della situazione, recupera in severità su altri fronti: per ottenere le prime tranche, infatti, i singoli Paesi hanno dovuto presentare dei piani di spesa coerenti con le priorità individuate a livello europeo (ambientale, digitale e d’inclusione sociale su tutte) e improntati all’attuazione di una serie di riforme strutturali.

Ed è questo che ha fatto anche l’Italia: nella fase di transizione tra i governi Conte-bis e Draghi, l’esecutivo, anzi gli esecutivi e il Parlamento hanno lavorato alla stesura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), come richiesto in sede di Commissione, a fine aprile il premier Draghi l’ha presentato ed è di pochi giorni fa la notizia della sua approvazione.

Quali sono allora le voci di spesa più cospicue e quali quelle più risicate che il PNRR italiano prevede per l’impiego del Recovery Fund? Scopriamolo insieme!

Spesa pubblica e sostegni alle imprese: come spenderemo i primi aiuti?

Come già accennato in precedenza, l’approvazione del PNRR è sempre dipesa dalla sua compatibilità, anzi dalla sua aderenza, a determinate linee programmatiche stabilite in sede di Commissione Europea.

Dette linee programmatiche, alcune di carattere politico, altre di carattere economico, hanno fatto da base per la creazione del Piano, che si è poi articolato in sezioni e voci di spesa (quasi sempre) più precise.

Ma andiamo con ordine.

Per ovvie ragioni – le linee guida vanno naturalmente declinate sulla base delle esigenze e del retroterra del Paese in questione, i tempi (2021-2026) sono lunghi, si tratta ancora solo della prima tranche – il documento presentato dall’Italia è ancora un prospetto di massima.

Sono però elencati gli obbiettivi trasversali, le aree d’intervento, la spesa preventivata per ciascuna di esse in relazione al totale, le competenze e le responsabilità, di natura politica e gestionale, sulla corretta applicazione del Piano.

Nella prima e nella seconda versione del PNRR erano individuate sei missioni, molto simili per denominazione e leggermente meno per fondi stanziati. Entrambe – e nello stesso ordine – si focalizzano su:

  • Digitalizzazione (49,1 miliardi complessivi tra Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e Fondo complementare);
  • Transizione ecologica (68,6 miliardi totali);
  • Infrastrutture e mobilità (31,4 miliardi totali);
  • Istruzione e ricerca (31,9 miliardi totali);
  • Inclusione e coesione (22,5 miliardi totali);
  • Salute (18,5 miliardi totali).

Sono da ritenersi poi trasversali al raggiungimento di ciascun obbiettivo le priorità politiche della parità di genere, dell’inclusione sociale e delle opportunità per la popolazione giovane per tutti i Paesi; l'Italia ha inoltre intenzione di destinare il 40% degli investimenti totali al Mezzogiorno.

Un’altra delle norme fissate dall’Unione Europea come vincolo per la fruizione del fondo è naturalmente la sua sostenibilità economica, da dimostrare per ottenere l'erogazione semestrale prevista. Anche sui preventivi di questo tipo la Commissione europea ha per ora espresso parere positivo.

Come già accennato in precedenza, l’attuazione pratica degli intendimenti contenuti nel PNRR passerà attraverso il varo di una serie di riforme la cui responsabilità sarà in capo, oltreché al governo a una Cabina di Regia che si avvicenderà all’avvicendarsi degli esecutivi, a una Segreteria tecnica, che invece rimarrà in carico fino al 2026, data prevista per la fine del piano di sostegni europeo, e alle rappresentanze degli enti locali, ove direttamente coinvolte nelle decisioni.

Da Conte a Draghi: che cos’è cambiato?

Un avvicendamento di governo però c’è stato, e proprio nella fase, estremamente critica e delicata, in cui s’iniziava a discutere di questi temi.

Caldeggiato in particolare da Matteo Renzi, che già da mesi minacciava di togliere la fiducia all’esecutivo di cui lui stesso era stato artefice, il rimpasto è avvenuto a tempo di record, la più importante testa caduta è stata quella di Giuseppe Conte e il nuovo governo ha goduto fin dal primo momento di una maggioranza parlamentare eccezionalmente larga.

Ma perché proprio in un momento così particolare? E che cosa si lascia indietro il PNRR di Conte che Draghi non prevede – o viceversa? 

Dal momento che, come detto, non è ancora possibile andare (troppo) nel merito delle riforme che il governo Draghi ha intenzione di attuare, la sinossi con la bozza di PNRR proposta da Conte – e approvata, illo tempore, dalla Commissione Europea – può essere condotta su due fronti distinti.

Il primo è quello di un confronto esclusivamente economico: le differenze di spesa preventivata sono poche, è vero, ma non inesistenti, e il nuovo PNRR prevede, oltre a un margine di spesa leggermente più ampio in vista di un aumento del PIL di oltre il 3% (maggiore di quanto previsto nella bozza precedente), una maggiore autonomia decisionale dello Stato italiano, che sarà meno ‘obbligato’ del previsto a riferire alla Commissione.

Inoltre, Draghi ha dirottato su istruzione e ricerca parte dei fondi destinati alla transizione ecologica (o Rivoluzione verde): erano loro destinati, nella precedente versione, rispettivamente il 13% e il 31% dei fondi totali, ossia 28,49 e 69,8 miliardi di euro.

Un 1,7% di spesa in più destinato all’istruzione e alla ricerca è perciò la differenza più sostanziosa; le altre voci di spesa sono state modificate in percentuali di massimo l’1% (nella fattispecie, 1% in meno alle missioni sull’ambiente e sulle infrastrutture).

La seconda possibilità di confronto, decisamente più interessante, è invece nel merito della visione politica che ciascuno dei due ha.

Sono infatti scomparse dal PNRR alcune suggestioni direttamente provenienti, pare, da Conte e dalla sua storica attenzione ai temi del lavoro e della previdenza sociale.

Si trattava di dichiarazioni programmatiche, non d’intenti, ma è comunque scomparso ogni riferimento alla stabilità salariale e personale del lavoratore, al suo diritto a un compenso equo commisurato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto – concetti costituzionali e presenti nella bozza di Conte ma non nel piano definitivamente approvato.

Scompaiono inoltre tutti i riferimenti al cashback, di cui il precedente governo andava molto fiero, ma che è invece in netta contrarietà con gli orientamenti politici dell’attuale premier, fortemente avverso, e non ne ha mai fatto mistero, a qualsiasi forma di sussidio statale – benché non abbia mai mostrato di voler attaccare il Reddito di Cittadinanza, e se ne dichiari anzi soddisfatto.

Confindustria e i sindacati: la danza degli interessi dietro le sirene del Recovery Fund

E le parti sociali? Gli imprenditori non hanno dubbi fin dall’inizio, e hanno accolto subito – anzi, ben prima dell’ufficialità – la figura di Draghi con molto entusiasmo. 

È in realtà almeno dalla fine del 2020 – da quando, cioè, l’erogazione di una somma così cospicua ha iniziato a sembrare verosimile – che Confindustria insiste per dire la propria sugli investimenti pubblici a breve termine.

Il fatto che la partita non sia chiusa (le riforme, appunto, sono ancora tutte da scrivere) non ha smorzato gli entusiasmi di Bonomi e degli industriali da lui rappresentati: pochi giorni fa, infatti, il Presidente del Consiglio ha parlato all’assemblea Nazionale di Confindustria trattando il tema della crescita e ha ricevuto ripetuti applausi di tutta la platea nonché un’accorata manifestazione di stima da parte di Bonomi stesso.

Quest’ultimo ha sottolineato la sostanziale concordia di vedute dell’assemblea con Draghi – una concordia già antica, da quando Bonomi parlava di Sussidistan nello scorso autunno e la nomina di Draghi non era ancora all’orizzonte – e ha auspicato la massima accelerazione possibile sull’avvio delle riforme che dovrebbero concretizzare il PNRR.

Sembra avere senso tanto ottimismo in prospettiva di un’iniezione d’incentivi alle imprese, viste le priorità evidenziate dal Piano, la digitalizzazione su tutte.

Un esempio tra tanti, molto interessante, può essere questo, che riguarda i software CRM ed è molto ben esposto da VteNext, già presente nel settore.

Buono anche il proseguire dei rapporti di questo governo con i sindacati: fino a ora, questi ultimi si erano limitati a giustificare la cancellazione delle frasi di cui sopra su dignità del lavoro ed equità retributiva presenti nella bozza di Conte e scomparsi dal PNRR definitivo, auspicando un miglioramento in sede di contrattazione sindacale per singola azienda.

Pochi giorni fa invece si è aperto un piano di dialogo finalizzato alla ‘messa in sinergia di tutte le forze produttive’, e che inizia parlando di sicurezza sul lavoro e, ovviamente, di PNRR.

Di concreto ben poco – e pochissimo nel merito del PNRR – ma non proprio zero, ed è comunque un primo passo, benché a parecchi mesi dall’insediamento del governo.

E la politica? Tutti pazzi per il PNRR!

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque?

PNRR approvato dall’Europa, credibile in esso e nei suoi sviluppi un equilibrio tra spesa pubblica e incentivi ai privati, maggioranza parlamentare bulgara e sostegno contemporaneamente di Confindustria e dei sindacati. Si direbbe che non si possa desiderare di più.

Ma delle ombre, almeno politiche, sono innegabili in tutta l’epopea del PNRR, della staffetta a Palazzo Chigi e della fiducia a Draghi.

Il dubbio non è squisitamente di costituzionalità, non se ne preoccupino i giuristi; tutt’al più è di tenuta della democrazia. Ha un sapore di estrema fretta l’avvicendamento al governo – tanto da far pensare ai più malevoli che se non ci avesse pensato Renzi, a dare la spallata, ci avrebbe pensato qualcun altro – e ha un sapore sospetto anche la larghezza della maggioranza. 

È la seconda volta in pochi anni che l’Italia si affida a un governo cosiddetto tecnico, e tutte e due le volte con un così vasto consenso parlamentare e di elettorato che potremmo definire quasi a corpo morto.

Tuttavia, nel caso del governo Monti la parola d’ordine era risparmiare, mentre in questo caso è spendere, e forse non è da complottisti pensare che l’ex presidente della BCE sia stato considerato un tecnico tanto oculato da doverlo mettere al governo in questo momento, in un modo o nell’altro.

E alla vastissima maggioranza parlamentare che gli dà fiducia (PD, Movimento 5 Stelle, Lega, Forza Italia, Liberi e Uguali, Italia Viva…) ha forse fatto così tanta gola il rientrare nel novero di quanti avevano accesso al fondo da spendere che molte questioni di natura procedurale e democratica, come far leggere al Parlamento un documento così importante almeno qualche settimana prima di presentarlo in Commissione Europea, sono state ignorate o minimizzate.

Ma se dalle parti sociali è pienamente legittimo aspettarsi che il dialogo su un piano di spesa tanto faraonico quanto delicato verta anche sulla tutela dei propri interessi di campanile, forse da parte della politica sorprende un po’ questo sostegno quasi acritico.

E forse è anche lecito chiedersi se il ruolo della politica non sia invece di contribuire al dibattito a volte anche contrapponendosi in maniera costruttiva.