Draghi alla prova del DEF: più debito, sarà buono?

I cantieri silenziosi del Recovery Fund lasciano solo una certezza in attesa del Pil: saremo più indebitati

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A pancia a terra, nella trincea della crisi. Il governo si attrezza per l’uscita dalla pandemia nel mese chiave per la definizione del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza da inviare in Europa entro fine aprile per accedere ai miliardi d’Europa. Il NextGenerationEU, passato alle cronache come Recovery Fund, per ora lascia alle nuove generazioni più debito di prima. Non si sa molto di più. 

Le previsioni del nuovo DEF, il Documento di Economia e Finanza che il governo ha approvato venerdì scorso e che prevede un ulteriore scostamento di bilancio di 40 miliardi di euro, confermano a parole la volontà monitorare la crescita del debito pubblico, ma non da subito, perché per ora bisogna affrontare la pandemia e una folla di drammi economici e sociali che si sono trasformati in urgenze sempre più pressanti.

Al nuovo DEF spetta il difficile incarico di curare il presente senza sacrificare il futuro, ossia di riportare in campo la crescita e con essa guarire nel tempo il debito che a bocce ferme si tiene in piedi solo grazie agli acquisti della Bce e al fatto che la devastazione portata sull’economia dal Covid-19 rende irrilevante un’ottica programmatica di risanamento dei conti pubblici. Un po’ come dire che prima di preoccuparci di essere indebitati domani, dobbiamo arrivarci vivi.

La sintesi dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) sull’aumento del deficit non lascia alternative esegetiche della manovra:

Il percorso programmatico di finanza pubblica delineato dal DEF prevede un peggioramento dei saldi di finanza pubblica per il triennio 2021-2023 con un indebitamento che sale all’11,8, al 5,9 e 4,3 per cento rispettivamente nel 2021, 2022 e 2023 per poi confermare nel 2024 il valore tendenziale

Quindi un pesante 11,8% di deficit/Pil quest’anno. Non solo, un rientro nel 3% europeo che slitta dal 2023 al 2025. Spendere tanto e subito, la promessa di rientro al debito/Pil pre-crisi (134,6%) nel 2030. Nel mezzo la speranza di riaccendere la crescita e finanziarci il risanamento dei conti pubblici (ossia ripagare il debito).

DEF e deficit: l’oggi…

Alla fine del 2020 l’Italia si è presentata con un Pil in calo dell’8,9% a 1.651 miliardi di euro, con una disoccupazione al 9,3%, con un debito pubblico al 155,8% del Pil e un deficit al 9,5 per cento. Da questa disfatta ancora ad aprile appesa alle incertezze esecutive del piano vaccinale e della pandemia, nasce il piano per il futuro intrecciato strettamente con quello per la nuova generazione dell’Unione Europa.

… e il domani

Il governo confida in un recupero del 4,5% del Pil quest’anno, del 4,8% nel 2022, del 2,6% nel 2023 e dell’1,8% nel 2024. Il deficit dovrebbe passare dall’11,8% atteso quest’anno, al 5,9%, al 4,3% e al 3,4% negli anni successivi. Il debito/Pil al lordo dei sostegni dovrebbe salire al 157,8% quest’anno e quindi avviare un lento calo al 154,7%, al 153,1%, al 150,9%.

DEF, ma in pratica?

Il comunicato del governo del 15 aprile scorso riporta (il grassetto è nostro):

Le risorse aggiuntive a valere sul 2021 (40 miliardi di euro) saranno utilizzate per un nuovo provvedimento di sostegno all’economia e alle imprese, in particolare per sostenere i lavoratori autonomi e le imprese più colpite dalle restrizioni adottate per contenere il contagio. Il prossimo provvedimento, inoltre, destinerà risorse al rafforzamento della resilienza delle aziende più colpite, a misure per garantire la disponibilità di credito e per sostenere la patrimonializzazione delle imprese.

Quindi il balsamo sulle ferite, una fasciatura in qualche caso, un cerotto in molti altri, sperando che la frattura guarisca e la gamba riprenda a correre. E la prospettiva? Digitalizzazione, transizione ecologica, infrastrutture, intelligenza artificiale, internet delle cose, la nuova sanità e via di spot. Ma in concreto?

Beh intanto si parte da 11,85 miliardi di euro quest’anno per le imprese (per l’Industria 4.0 5,28 mld). Circa 7,54 miliardi di euro sono messi sul lavoro e altri 4,71 miliardi di euro vanno alla riduzione della pressione fiscale e all’assegno universale. Il governo prevede 1,63 mld per famiglia e politiche sociali e 2,81 mld per la sanità. Poi scuola, università e ricerca prendono 1,02 mld, gli enti territoriali 707 mln e la previdenza 256 mln. A ordine e sicurezza pubblica va un miliardo al trasporto pubblico locale 425 mln (compreso il trasporto scolastico), a pubblica amministrazione e lavoro pubblico 321 mln. 

Spesso più che l’ammontare delle risorse stanziate, sarà la qualità della spesa a fare la differenza. Il 7 aprile il Ministero della Pubblica Amministrazione ha annunciato 2.800 assunzioni al Sud. “Il nostro obiettivo è di garantire innanzitutto il turnover fisiologico: almeno 500 mila ingressi per cinque anni, 100 mila l’anno, pari al numero di dipendenti pubblici che andranno in pensione secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato. Poi bisogna ragionare selettivamente sui settori che si sono maggiormente impoveriti negli ultimi dieci anni”, ha dichiarato Renato Brunetta al Messaggero, lasciando intendere di aver capito che se si vuole che la macchina della Stato funziona bisogna investirci su, a partire dal personale. Ovviamente senza digitale, formazione ed efficientamento di processi e procedure non servirà a nulla, ma senza le persone servirebbe ancora a meno. 

Allo stesso modo i cantieri. In pratica il governo, per mano del ministro Enrico Giovannini (Infrastrutture e mobilità sostenibili), ha commissariato 57 opere pubbliche bloccate del valore di 82,7 miliardi di euro, già finanziate per circa 33 mld. Sono 16 infrastrutture ferroviarie, 14 stradali, 12 caserme per la pubblica sicurezza, 11 opere idriche, 3 infrastrutture portuali e una metropolitana. «Quest’anno partiranno 20 cantieri, 50 nel 2022 e 37 nel 2023 - ha dichiarato lo stesso Giovannini al Corriere della Sera - Si tratta soprattutto di cantieri ferroviari e stradali relativi a lavori già progettati. Tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo sarà la volta dei primi presidi di sicurezza, poi, a cavallo del 2022-23, dighe e strutture idriche». Sperando che stavolta i cantieri si sblocchino davvero. L’annuncio di cronoprogramma pubblico dei cantieri per fine mese è però una novità importante.

I piani del governo per il Recovery Fund? Confindustria, ne sappiamo come a gennaio

Nel frattempo i lavori al PNRR proseguono, senza l’attesa trasparenza. Tutti bramano le risorse del recovery fund e i ministeri se ne contendono le poste da settimane, ma cosa poi si stia preparando per Bruxelles non è ancora noto, se non per grandi linee. Lo conferma persino Confindustria, con il presidente Carlo Bonomi che ha ribadito l’importanza del confronto del governo con le parti sociali e ricordato che ogni valutazione sarà possibile solo dopo la visione del documento, a viale dell’Astronomia non se n’è visto un paragrafo e l’ultima versione è quella del 12 gennaio scorso. I toni di Bonomi si sono molto mitigati nei mesi, ma su quel documento il giudizio era stato tranchant: “Non è il progetto adatto a cogliere un'occasione unica”.

Ora chiede di evitare azzardi e propone l’inoltro all’Europa di “un piano B, solido e credibile, di rientro del debito”, visto che il livello del debito pubblico, come visto, è previsto sopra il 150% per anni. Nel frattempo chiede anche di rinviare l’attuazione del Codice della crisi d’impresa per evitare un’ondata di fallimenti fuori controllo; di incentivare la patrimonializzazione delle aziende; di procedere con la riforma degli ammortizzatori sociali, delle politiche attive del lavoro e con la riforma fiscale. Tutte emergenze che si sono impolverate nell’ultimo anno mentre da febbraio a febbraio si perdevano 945 mila occupati nonostante il blocco dei licenziamenti. 

Il governo ha già messo nero su bianco che la riforma fiscale sarà definita nella seconda metà dell’anno, a partire dall’Irpef, ma anche con uno sguardo a imposte ambientali e tassazione delle multinazionali.L'UPB, nel quadro di una generale promozione del DEF, mette in guardia dai pericoli della rete enorme di garanzie pubbliche che sta arginando la frana della crisi: si è ormai al 13% del Pil, bisognerà farci attenzione.

I soldi dell’Europa restano tanti e distanti, considerando tutti gli strumenti del NextGenerationEU (RRF, REACT-EU ecc.), con l’aggiunta delle risorse nazionali si passa dai 205 miliardi della NADEF (aggiornati a 208 nella Legge di Bilancio) a circa 237 miliardi con il nuovo PNRR.

In definitiva il debito è certo, se sarà buono lo dirà il tempo. 

(Giovanni Digiacomo)