Un mese fa, il 2 aprile 2021, è sbarcata sulla piattaforma Netflix una serie TV destinata a lasciare il segno, proprio come il personaggio che negli anni Settanta ha commesso tutti i crimini raccontati negli 8 episodi.
Sto parlando di The Serpent, miniserie che disegna la storia di un serial killer con un’accurata precisione nei dettagli, e qualche sottile reinterpretazione nelle dinamiche che arricchisce senza sporcare gli eventi.
Il protagonista di questa storia è Alain Gautier, alter ego di Charles Sobhraj, giovane e carismatico trafficante di gemme che, lungo i suoi vari spostamenti nell’Asia, colleziona e lascia alle sue spalle una serie di omicidi che lo porteranno a guadagnarsi l’appellativo The Bikini Killer.
Come sempre, prima di addentrarci in esasperanti analisi, a volte personalissime, altre volte piú contenute, vi lascio il trailer della miniserie che potete trovare nel canale youtube ufficiale di Netflix:
Da Bikini Lovers a Bikini Killer
Il nome The Bikini Killer nasce dalla precisa scelta delle vittime dell’assassino: sono i viaggiatori, ragazzi tra i venti e trent’anni che, zaino in spalla, partono all’avventura nel continente straniero, con quattro stracci e un passaporto in tasca.
Bisogna infatti tenere presente gli anni in cui questi omicidi sono stati commessi, ovvero intorno al 1975.
In quel periodo piú che mai, viaggiavano solo benestanti che potevano permetterselo.
Soprattutto, viaggiavano con contanti. Questo era il succoso piatto che faceva gola al nostro efferato assassino: estremamente esplicita è la scena del primo episodio in cui viene mostrato l’incontro tra Alain e la coppia di olandesi Willem Bloem (Armand Rosbak) e Helena Dekker (Ellie de Lange).
Sono giovani turisti, vestiti di poche indumenti sgualciti, eppure Willem osserva anelli preziosi chiedendosi quale potrebbe essere il piú adatto per la sua fidanzata. È qui che entra in gioco Alain, esperto di gemme, esperto di giovani hippie con in tasca molti piú contanti di quello che sembra.
Quello che un assassino cerca, quello che un assassino dà
Se ogni serial killer condivide con gli altri assassini seriali quanto meno una caratteristica, che potremmo banalmente trovare nella fatale quanto organizzata uccisione di piú persone in un tempo che può essere ravvicinato come no, è aspetto invece di pochi la peculiarità di uccidere persone che di te si fidano, a volte anche molto.
Alain non è un assassino comune, non è un pazzo che tira fuori una pistola in mezzo ad un supermercato e uccide tutti quelli che gli passano davanti.
È un uomo furbo, calcolatore, spesso provocatorio ma soprattutto estremamente carismatico.
Dal nulla riuscirà a far sorgere in torno a sé una piccola comunità alla Kanit House di persone in cui non solo può contare ciecamente, ma che non dubiterebbero mai di lui.
A questo proposito, mi tolgo subito un pensiero: l’attore che interpreta Charles Sobhraj, Tahar Rahim, è di un’intensità unica e rara. Gelido ma fragile, intelligente e spietato, racconta un personaggio con una vastità di colori e insicurezze che solo un uomo profondo e generoso potrebbe fare. Questa serie merita di essere vista anche solo per l’interpretazione di Rahim e degli altri attori, tutti piú o meno bravissimi, che danno vita a The Serpent.
Alain avvicina a sé giovani soli, lontani dalla propria famiglia da molto tempo, con un buon numero di contanti in una tasca e un passaporto con visto valido nell’altra, li avvelena e brucia i loro corpi, tenendo tutto quello che possiedono.
In un certo senso, il suo appartamento diviene triste magazzino di oggetti di poco valore, che in quelle quattro mura osservano in silenzio tombale le prossime vittime entrare in casa, venire avvelenate con ingenuità, e scomparire.
I traveler’s cheque servono per vivere, i passaporti per viaggiare con nomi di altri, permettendo quindi di far perdere le tracce delle vittime e di viaggiare indisturbato in lungo e in largo.
L’odio di un assassino
Cercando di andare oltre lo stereotipo, oltre le posizioni un po’ troppo tendenziose per essere considerate autorevoli, cercando insomma di guardare la storia non solo per quello che mostra, ma anche e soprattutto per quello che può essere capito davvero solo attraverso una buon investimento di empatia, sarà possibile comprendere il senso dietro l’odio.
Riguardo il senso dell’odio, vi lascio l’opportunità di ascoltare una canzone dedicata proprio a questa tematica dal cantante rap Salmo, che potete riascoltare su youtube nel canale dell’artista.
Partiamo dagli elementi evidenti: Alain uccide. Non fa semplicemente questo però, lui uccide perone che si fidano di lui. Non stiamo parlando solo della fiducia di chi ti dà un passaggio in macchina, ma di chi ti dà un bicchiere con dentro un intruglio dichiarato come medicina. Questo non è un gesto semplice, non è un dettaglio da poco. Lui ti avvelena con il gesto piú materno del mondo.
Quello che si scopre del protagonista nel corso degli otto episodi è infatti il disegno che muove la mente e le azioni di un uomo che, per quanto gelido, rimane un uomo.
Se le azioni appaiono meticolosamente ragionate e studiate, la mano che le guida rimane la mano di un uomo con un passato e una storia.
Impariamo infatti ad unire i puntini di Alain, capendo il senso di esclusione che lo ha sempre fatto sentire incompreso e lontano da qualsiasi gruppo, un figlio meno amato dai genitori, un francese che dagli altri viene visto solo come uno straniero (era figlio di padre indiano e madre vietnamita).
Questa solitudine sfocerà quindi nel tentativo di ricrearsi una sua personale e selezionatissima famiglia a Bangkok (piú volte viene rinfacciato ai vari abitanti della Kanit House di essere tutti suoi fratelli, appena alludevano all’ipotesi di tornare a casa). Da un certo punto di vista infatti, pare sia la solitudine e l’invidia a guidarlo, a scegliere persone che una famiglia ce l’hanno, ma lontana, e prenderli con sé, e pretendere che amino lui, solo lui, davanti a tutti gli altri.
Bikini lovers
Il Bikini Killer (termine nato dagli indumenti -i costumi- che indossavano sempre le sue vittime al momento del ritrovamento) aveva però anche degli amori, dei sentimentalismi che, come per qualsiasi storia del mondo, vanno ad influire in maniera importante sulla sua vita e quelle che gli ruotano intorno.
È infatti giunto il momento di parlare di Marie-Andrée, la giovane canadese del Québec che in pochi mesi si tramuterà in Monique, la vera e propria partner in crime di Alain.
Figura complessa e poliedrica, a mio parere il racconto dell’attrice Jenna Coleman non regge il confronto dell’interpretazione di Tahar. Ciononostante, il percorso di questa donna in cui coesistono due realtà, due menti, due voci (quella della docile e insicura Marie, che litiga e muore sotto il peso di una piú spietata Monique) rimane una delle figure piu affascinanti della vicenda.
La storia d’amore tra Alain e Monique non è una storia alla Bonnie e Clyde, e questo è un dettaglio importante per poter apprezzare la sincerità del racconto. Marie non sceglie con una lucida consapevolezza la vita e il percorso con Charles, ma vi ricade invece dentro attraverso una fila infinita di silenzi.
La giovane canadese rimane affascinata dai modi di Charles proprio come tutti gli altri, e come tutti gli altri sceglie di abbandonare ogni vita precedente per rimanergli accanto. Quando poi si rende conto di aver voltato le spalle a tutti e tutto per un uomo misterioso, introverso-
nel leggere il diario segreto di Marie, Angela Kane (moglie del diplomatico Herman Knippenberg che ha permesso l’arresto del criminale) dirà “questa donna non conosce Alain piu di quello che sappiamo noi di lui”
-inizia a coesistere in lei la curiosità nel diventare la persona che lui spera lo affianchi, con tutti gli onori e oneri del caso (Monique, appunto) o abbandonare tutto per ritornare alla vita di prima, ammettendo davanti a tutti di aver fatto un errore.
In un certo senso, Alain (o Charles) si sente solo da sempre, e dunque rende soli gli altri.
Ti allontana da tutti, ti dà qualcosa di cui neppure tu sapevi di aver bisogno (per Marie, ad esempio, sarebbe la vita agiata e pericolosa, piena di adrenalina), e infine ti porta a sentirti in debito.
Alain ti prende in ostaggio.
Vittima o complice
Se la paura è un’emozione che tutti conosciamo, facilmente provocabile (a chi piú, a chi meno, durante una notte tempestosa a casa da soli, il sentire un ticchettino alle spalle provocherà in chiunque un sobbalzo istintivo), non ogni angoscia è pura e ben fatta come si dovrebbe.
In The Serpent, ad esempio, molti sono i momenti di reale angoscia e, nonostante tu sia seduta sul divano di casa tua in Italia, vivi con la stessa nitidezza l’angoscia della viaggiatrice sola per le strade del Nepal. Eppure, le scene di violenza sono davvero poche.
È stato in questo punto che ho realizzato una cosa: noi spettatori siamo esattamente come Marie che diventa Monique. Noi vediamo solo quello che vede lei lungo il suo instabile cammino attraverso un filo che divide l’essere vittima ignara e incontra la complice spietata.
Ecco infatti che intendiamo, percepiamo l’omicidio senza prove certe, osservando scene ambigue che ci fanno intuire il pericolo nell’altra stanza, proprio come Marie. Quando poi Marie diviene Monique (in un momento tristemente accompagnato dall’incontro della canadese con due nuove vittime), ecco che ci viene mostrato per la prima volta il duplice omicidio.
Da ignari spettatori, siamo divenuti testimoni passivi.
Quel che resta di un omicidio
Ho guardato questa miniserie sospettosa, le poche immagini che avevo disordinatamente visto in giro per i vari social non rientravano nei miei gusti.
Eppure ho guardato questa serie con il fiato sospeso, resistendo alla piú primitiva delle mie tentazioni: leggere la storia vera, rovinandomi di conseguenza il finale. È una serie tv intensa, bellissima, ricca di immagini di repertorio, di colori e costumi attraenti e ipnotici.
Il cast che vive e agita questa storia è molto piu numeroso, ma raccontare di ogni personaggio avrebbe rovinato la sorpresa di chi sceglierà di vedere la serie.
Le tematiche magari sono meno numerose del solito, ma solo perché quelle trattate sono già incredibilmente esistenziali, come appunto l’omicidio e quel disagio che si prova quando si comprendono le ragioni (e ti ritrovi a pensare che non va bene comprendere. Che non vorresti comprendere).
Consiglio questa serie a tutti.
A chi non piacerà rimarrà, quanto meno, la conoscenza di una terribile storia vera.