La Zona: la serie Tv ispirata a Chernobyl

Quanto ci si può sentire soli e abbandonati quando si vive un dolore ed una condizione unica nella sua tragicità? Questo e molti altri sono i temi trattati ne La Zona, serie TV del 2017 ispirata al disastro del reattore nucleare di Chernobyl. Come sempre, preferisco dedicarmi all'analisi degli aspetti più romantici (da intendere come mondo sentimentale) della questione, cosí che possa far sentire coinvolti un po' tutti noi.

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La Zona è una miniserie spagnola uscita per la prima volta nell’ottobre 2017 sul canale #0 e pubblicata contemporaneamente nella piattaforma on demand Moviestar+. Un anno più tardi, è divenuta fruibile anche in Italia grazie ad Amazon Prime Video. I creatori della serie sono i fratelli Jorge Sánchez-Cabezudo e Alberto Sánchez-Cabezudo, i quali hanno impiegato sedici mesi per la stesura dello sceneggiato.

Detto ciò, avventurarmi e cercare di trattare la vicenda raccontata da questa storia non mi risulta banale, soprattutto perché anche i sentimenti che nutro (e che questa vicenda ha scaturito in me) sono complicati e spesso contraddittori. Prima di oggi, per tutte le altre recensioni che ho scritto, i punti nella mia mente, le mie opinioni e i sentimenti che provavo, erano chiari nella mia testa. 

Con questo non intendo dire che un’opera, per essere apprezzabile o detestabile, debba provocare reazioni dall’interpretazione limpida, questo è anzi un modo di interpretare l’arte (perché è di arte che io credo di parlare, il più delle volte, anche se non di mio gusto) estremamente superficiale e immaturo.

Un’opera, sia essa una miniserie, un dramma teatrale, un film o un quadro, è sempre bene che lasci delle domande allo spettatore. 

Qualcuno una volta ha detto che quando esci dal teatro e pensi “non ho capito ciò che ho visto, ma mi è piaciuto”, allora hai visto un bello spettacolo. Mi trovo d’accordo.

Il dubbio che invece mi rimane, dopo aver concluso la visione dell’ultima puntata de La Zona, ecco, è che non so se mi sia poi realmente piaciuta.

Intanto, se non avete presente di quale serie io stia parlando, ecco a voi il trailer originale:

Partiamo però, come sempre, dal contesto.

La storia si svolge a sud-est di Gijón, nelle Asturie. Un disastro nucleare ha portato alla morte moltissime persone e reso radioattiva tutta la zona circostante. La storia che ci viene raccontata si snoda tuttavia tre anni dopo i tragici fatti, scavando alla ricerca dei colpevoli di alcune morti sospette, raccontandoci la corruzione, il dolore per la morte dei cari, e soprattutto quella che diviene la quotidianità dopo un terribile evento che contamina non solo l’aria e la terra sotto i piedi, ma anche l’anima e l’essenza umana, con tutto quello che ne consegue.

Chernobyl e La Zona

“Ci sono cose da cui non riesci a separarti, anche se pesano un quintale”

Come confermato dagli stessi creatori, La Zona è un chiaro riferimento al disastro che avvenne nel 1986 nell'impianto nucleare che, a onore del vero, faceva capo alla municipalità di Pryp"jat', da cui Chernobyl dista 18 km.

Se preferisco evitare di parlare di ciò che non conosco, salterò a piè pari tutto ciò che concerne gli aspetti puramente tecnici della vicenda - andando così a sottolineare una delle criticità de La Zona, sicché sugli aspetti pratici del disastro hanno dedicato diverse puntate, lasciando comunque lo spettatore in un marasma di tecnicismi sconosciuti ai più soprattutto dal momento che, nel 2019, la HBO ha raccontato nel dettaglio quelle che sono state, almeno per il disastro di Chernobyl, le reali cause e conseguenze dello scoppio del reattore nucleare.

Preferisco occuparmi invece di quello che può divenire un sempre contemporaneo spunto di riflessione: l’uomo e le sue fragilità. 

Chernobyl, La Zona e la quotidianità

La malattia, il sapore delle radiazioni, il cibo. 

Quello che non posso non riconoscere nella serie che racconta un disastro nucleare come un doloroso memoriale di Chernobyl (sottolineiamo che questa miniserie è uscita prima della più famosa Chernobyl della HBO), è la delicata attenzione alla quotidianità. 

Nonostante i dettagli della nuova ordinaria esistenza si affollino principalmente nelle prime puntate, come risposta alla chiara esigenza di immergere lo spettatore in una realtà che, per una fortuna troppo spesso dimenticata, non ci appartiene, essi rimangono attenti e mai banali.

Non mi riferisco alle malattie, amaramente conosciute come conseguenza numero uno a questa tipologia di disastri, e nemmeno alla pioggia radioattiva, che ti mette in guardia non solo da un nemico invisibile (l’aria) ma anche ad un nemico inevitabile (quello che cade dal cielo).

Io mi riferisco al cibo da comprare al supermercato, disagio che viene raccontato nella scena tra Julia (Alexandra Jiménez) e una signora con cui scambia qualche battuta davanti ad un banco frigo:

“Deve prestare attenzione alle etichette: non compri nulla che abbia conservanti E-226, né cose confezionate qui”

Ma un aspetto ancora più profondo è quello del grande disagio che provano i protagonisti nell’essere obbligati a vivere a 50 km dal luogo della tragedia, sentendo un profondo senso di spaesamento e solitudine, ché non è vero che un dolore comune unisce, ma anzi spesso allontana, e logora.

Come uno spirito malvagio, il richiamo verso la propria casa passata, a volte appare come una nostalgia, altre volte come un diavolo:

“Laggiù c’è qualcosa che non lascia in pace neanche i morti”.

Lo sa bene il protagonista principale, l’ispettore Héctor Uría, interpretato da Eduard Fernández (attore senza dubbio versatile ed intenso, che nella sua carriera ha già vinto due Premi Goya e che, se siete amanti del cinema di Almodóvar, potreste aver riconosciuto in La pelle che abito del 2011), che vive il doloroso senso di colpa tipico dell’unico superstite di una squadra di soccorsi, e peggio ancora: il dolore di sopravvivere al figlio.

Le parole

Come si saranno già accorti i lettori più attenti, questa volta più che mai preferisco affidarmi alle parole dei personaggi che, meglio di come saprei farei io, riescono a centrare emozioni, temi, concetti.

Riguardo al dolore del ricordo, alla nostalgia del morto che costantemente esiste e si presenta di fronte a noi, l’ispettore pronuncia delle parole pesanti ma incisive:

“Non faccio altro che chiudere tombe che l’indomani ritrovo aperte”

Credo infatti che i fratelli Sánchez-Cabezudo debbano essere soprattutto orgogliosi della loro capacità di trasformare in parole le emozioni che, come preferisco pensare io per giustificare quella che desidererei essere una mia dote ma invece mi affatica, le emozioni sono essenzialmente aria, e non è semplice ma anzi quasi impossibile, riuscire a darle una forma, come le parole pretendono di fare.

Il problema essenziale del racconto sta infatti nella fatica che richiede seguire questa miniserie: detto fuori dai denti, bisogna aver proprio voglia di guardarla. Non è quindi di certo una serie leggera da mettere su mentre si cucina il pranzo o si sta in generale facendo altro, ecco.

Questo però, non solo per la complessità nel seguire i fatti e l’ordine narrativo che spesso complica il processo (la quantità di flashback è così numerosa che avrei trovato a questo punto piu utile dividere direttamente la serie in 4 puntate sul pre- incidente e le altre 4 sul post- incidente), ma anche e soprattutto per l’altissima qualità interpretativa di attori e attrici che raccontano la storia.

In particolare, desidero porre l’attenzione sul monologo del cacciatore Lucio (Luis Zahera), che affronta un tema in realtà velocemente messo da parte per lasciare spazio agli eventi che costruiscono lo scheletro della storia, ma che ha conquistato l’attenzione che, in quanto attrice, non posso non avere per questi aspetti di una storia.

“Viviamo di quello che uccidiamo. Tutti noi. Tutti quanti. Ormai li compriamo già morti, nei loro cimiteri di merda. Agnello, mucca, pollo, anatra. Belli spezzettati, confezionati, sotto vuoto, avvolti nella plastica o in quelle retine del cazzo. L'hai sentita la pubblicità? Più cadaveri mangi, piu forte diventi! Se pero non sopporti l’’idea di vivere di morte, non essere ipocrita, diventa vegetariano. Ora, se uno mangia la carne, è chiaro che vive di morte. Io mangio la carne, quindi vivo di morte, questa è la differenza.”

Chernobyl, la solitudine

“Ma tu guarda se deve arrivare un pazzo che si mette a sbranare la gente perché ci si accorga di quello che accade qui”

Un altro aspetto inscindibile da ciò che consegue un disastro nucleare come quello di Chernobyl e, in questo caso, La Zona, è sicuramente la solitudine. I personaggi di questa vicenda si sentono soli, come suppongo sia quasi scontato sentirsi quando vivi un dramma terribile e pressoché unico. 

Tornando ai pensieri precedenti, il dolore non sempre avvicina, tuttavia, se vi è una possibilità che da qualcosa di orribile nasca una nuova unione, l’unico presupposto necessario immagino sia la condivisione.

Ecco che invece nella vicenda raccontata in La Zona, ma come poi sappiamo essere successo per Chernobyl prima, e Fukushima poi, il senso di abbandono e solitudine è reale e pericolosissimo. In fondo, gli atti di prostituzione, spaccio e delinquenze varie, se esistono e si sviluppano pressoché ovunque (ché ci si sente soli anche in mezzo alla gente), ritrovano nei luoghi più isolati il loro habitat perfetto, ed è proprio da questi presupposti che nasce la storia ispirata a Chernobyl.

Chernobyl, La Zona che resta

La Zona in cui è impossibile respirare, e dunque vivere; o quell’angolo di cemento e pianti e grida che non potrai mai dimenticare. La Zona non è solo la zona di esclusione, quella ancora altamente radioattiva, ma è forse quel punto nella mente che sappiamo di non poter toccare perché nocivo per noi.

Alla fine, se c’è una cosa che questa miniserie ci racconta con una particolare cura nei dettagli, è proprio il fatto che anche la tragedia che si scatena per errori materiali o pratici, lascia le cicatrici piu dolorose sempre nell’anima.

Vi è una zona cosí in ognuno di noi, è quella a cui permettiamo di parlarci solo nelle sere più buie e tristi, proprio come l’estetica di questa serie.

Se mi sono chiarita le idee

A questo punto dovrei decidere se consigliare questa miniserie o meno, ma rimangono ancora tante questioni irrisolte, soprattutto dal momento che diversi sono gli altri temi affrontati ne La Zona, alcuni meglio (ad esempio il sacrificio), ed altri peggio (la strana tematica del cannibalismo, trattata con superficialità e mai approfondita).

Mi permetto di dire che credo esistano serie fatte meglio di cosí.

Che si stia cercando qualcosa sul filone narrativo del disastro nucleare o di una realtà distopica, o che ci si voglia intrattenere con un giallo poliziesco, sarà possibile scovare un opera migliore.

Non mi sento però di demonizzarla troppo, perché parlare del dolore e della solitudine, anche se non in maniera sorprendente, è sempre meglio che non farlo affatto.