Hollywood è una miniserie in 7 puntate uscita su Netflix a maggio 2020.
Questa frase, lasciata cosí com’è nell’oblio di tutto quello che si può dire e non si dice di un’opera che può essere una serie, o un buon film, o chissà che, non permetterebbe di capire nulla di più di ciò che è già risaputo e dichiarato. Ma mi basta dirvi che la serie che analizzerò oggi è stata ideata da Ryan Murphy e Ian Brennan, perché tutto prenda una nuova forma.
Quella che ci viene raccontata infatti, non è la già vista e rivista storia del sogno di Hollywood, perché quando un tema viene affrontato da Murphy, questo prende un nuovo linguaggio, nuove parole e pensieri che, inevitabilmente, non sono più quelli di prima.
Avrete probabilmente già intravisto lo stile narrativo ed estetico di Murphy, che è stato già creatore di serie di enorme successo come Glee (2009), American Horror story (2011), o la più recente Ratched (2020).
Il suo gusto è chiaramente ampio e aperto a stili e racconti sempre diversi tra loro, ma il taglio che sceglie di dare alla vicenda, ai personaggi e alle parole che fungono da collante tra una scena e l’altra rimangono, invece, inconfondibilmente marchiate con il suo nome.
È stato doloroso per me guardare questa serie TV, sarà forse per la malinconia che raccolgo sempre dai personaggi più fragili, ma non posso negare la qualità dell’opera tutta, della cura nei dettagli e del talento degli attori. Il gusto nel finale alla Tarantino poi, per quanto prevedibile, ne è uscito come ciliegina sulla torta.
Partiamo però, come sempre, dai fatti.
La miniserie Hollywood ci mostra le vicende di alcuni giovani che, come molti fanno e hanno sempre fatto, giungono nella fantomatica Hollywood(land) con il sogno e l’ambizione di avere fortuna nel mondo del cinema.
Tra questi, ci viene presentato per primo Jack Castello (David Corenswet), giovane reduce dalla guerra che decide di tentare la carriera da attore. Poi incontriamo Archie Coleman (Jeremy Pope), talentuoso sceneggiatore che deve combattere anche contro il razzismo e l’omofobia, oltre che con la già ambiziosa carriera scelta.
Dopo conosciamo anche la coppia regista e attrice, composta da Raymond Ainsley (Darren Criss) e Camille Washington (Laura Harrier), la quale, afroamericana come lo sceneggiatore, compete con la collega Claire Wood (Samara Weaving), biondissima e bianchissima figlia del potente proprietario della casa di produzione, che soffre il peso del potere dei genitori.
Chiude il cerchio Rock Hudson (interpretato da Jake Picking), primo di alcuni altri personaggi realmente esistiti a incrociare la vita con quelli nati dalla fantasia del regista.
Se questi sono i giovani che tentano con le unghie e con i denti di trovare un loro spazio nella grande industria di Hollywood, molti invece saranno i personaggi che già ne faranno parte e che, a seconda delle varie personalità, aiuteranno o cercheranno di ostacolare le nostre aspiranti star.
Peg Entwistle: la Hollywood che uccide
Quella che rimane la protagonista senza volto (o forse, che conquista il volto grazie all’unione di tutti questi personaggi che le permetteranno, in qualche modo, una rivalsa) è sicuramente Peg Entwistle, l’attrice che salì alla ribalta della cronaca nella prima metà del Novecento.
Le ragioni sono delle più tragiche.
La giovane Peg, attrice che, proprio come i personaggi della nostra miniserie, era giunta Hollywood nel tentativo di iniziare la carriera cinematografica, non aveva retto alla spietatezza di una città tanto dolce e tanto amara.
Peg Entwistle aveva iniziato calcando i palchi di Broadway e riscuotendo anche un notevole successo (si dice che Bette Davis, dopo averla vista recitare L’anitra selvatica, del drammaturgo Henrik Ibsen, era rimasta colpita a tal punto da decidere di intraprendere a sua volta la carriera da attrice).
Tuttavia, il successo è come il vento, e ti accarezza e poi se ne va. Quando le venne cancellata la collaborazione per il thriller psicologico Thirteen Women, prodotto da David O. Selznick, Peg non ce la fece più.
Decise cosí di togliersi la vita in uno dei modi piu drammatici e dolorosi: fu la prima attrice a lasciarsi giù dalla prima lettera di quella che all’epoca era ancora Hollywoodland.
Questa è la storia che ispirerà la sceneggiatura del brillante Archie Coleman. La storia di un dolore, un grido in faccia a una città che ti mangia e ti rigetta. Tanta è la rabbia che cova questo giovane sceneggiatore.
Hollywood, la città e il sogno e il sesso
“Questa città è basata sull’ipocrisia. I film vogliono venderci un’immagine di una sana virtù americana, ma la gente che li fa è marcia fino al midollo”
Quello che accomuna tutti i personaggi della storia è effettivamente il sogno. Il grande, brillante sogno di Hollywood, luogo dove tutto e possibile e a portata di mano.
Se la storia scritta da Archie è dolorosa e drammatica, quello che invece ci racconta Murphy è una favola.
Tutto è morbido, tutto è proprio come il sogno di chiunque scelga di tentare la strada del successo.
Certamente, il dolore e i momenti di sconforto non mancano, e non vengono nascosti neppure quei fantomatici festini dove l’omosessualità non sono veniva concessa, ma era quasi pretesa con la forza.
Perché questi sono gli anni (ed è amaro ritrovarsi ancora cosí spesso in parole e paure che suonano tanto anacronistiche) in cui inizia ad affacciarsi una debole accettazione dell’omosessualità, ma solo tra quattro mura, e solo di sera. Questo perché era necessario che l’immagine pubblica di attori e registi rimanesse immacolata (e la storia vera di Rock Hudson parla proprio di questo, alla fine).
Quando poi qualcosa viene proibito, ma proibito poi non può essere, giacché non si parla di un pulsante che si può accendere e spegnere, le ripercussioni diventano violente e fameliche.
Parlo di un altro personaggio realmente esistito e che compare nella serie tv, l’agente di Rock Hudson, Henry Willson (interpretato da Jim Parsons, che per questa interpretazione si è meritato due nomination, una agli Emmy e una ai Golden Globe, come miglior attore non protagonista).
Innumerevoli sono le scene che lo ritraggono mentre, grazie al suo ruolo di superiorità, sottomette ai propri ordini l’acerbo e giovane Rock, imponendogli favori sessuali che raccontano bene quanto Hollywood faccia coesistere in sé violenza e passione, il diavolo e l’acqua santa.
La Hollywood che Murphy desidera raccontare
Se prendiamo le tue storie vere (o anche tre, considerando la vicenda di Anna May Wong), e il finale invece riscritto da Murphy, ci rendiamo conto che il messaggio che vuole mandare è forte e speranzoso.
Peg incarna in sé la delusione, la morte delle ambizioni, la disillusione nei confronti di una Hollywood che tanto promette e poco concede. Il film che però Archie alla fine realizza si intitola Meg, è interpretato da Camille, che in questo mondo immaginario diviene la prima attrice nera a vincere l’oscar come protagonista (in realtà è stata Halle Berry nel 2001).
La storia raccontata in Meg ha un finale totalmente diverso da quello tragicamente noto della vita di Peg. La protagonista qui sceglie di non suicidarsi, e nel momento in cui ritorna in sé, scopre che in realtà il ruolo nel film non le era stato davvero tolto, ed è ancora suo. Un messaggio contro il suicidio? Non ci è dato saperlo.
Quello che sicuramente è l’intento dei due registi (Murphy e il suo alter ego Raymond Ainsley) è di raccontare una Hollywood che non ti caccia via, ma ti raccoglie da terra e, miracolosamente, ti salva.
Anche il racconto di Rock Hudson ha una svolta immaginaria. Sappiamo bene che l’attore nella realtà nascose la sua omosessualità fino alla morte, ricordata amaramente come il primo decesso a causa della contrazione dell’AIDS. Nella serie TV di Murphy invece, sul finale lo vedremo sfilare con fierezza stringendosi con orgoglio ad Archie, deciso a smettere di nascondere il suo amore.
Volendo finire con un altro dettaglio di fantasia, anche la storia di Anna May Wong è purtroppo il solo fantasioso disegno del regista.
Anche lei, sul finale, riceverà finalmente l’oscar meritato, che darà l’occasione all’attrice per aprire un toccante discorso estremamente attuale, se pensiamo agli ultimi fatti della settimana e allo scivolone di Striscia la notizia.
“È un grande onore essere su questo palco, essere la prima attrice di origine cinese a vincere questo premio, e non per essermi truccata il viso di giallo e aver fatto una caricatura degli orientali, ma per aver interpretato una donna. Una donna forte e complicata con un cuore e un’anima”
Hollywood e il pubblico
“Il pubblico vuole solo apparenza”
Elemento cruciale della storia, unico e reale specchio di rimando per coloro che si muovono tra le ambiziose vie di Hollywood, rimane il pubblico. Questo perché è il pubblico a rendere un lavoro un successo o un fallimento, è lui che decide se comprare il biglietto o meno.
È pubblico (o l’idea che le star hanno di esso) a non permettere il coming out degli attori e altri lavoratori dello spettacolo. È il dubbio sull’opinione pubblica a far tentennare Avis Amberg (Patti LuPone) sulla scelta di una attrice protagonista nera.
“Ho sempre creduto di conoscere questo paese, ma ora… Questo non è il paese che credevo”
Se Hollywood rappresenta due facce della stessa medaglia, intese come ambizione e delusione, il pubblico restituisce invece il desiderio di uno scatto in avanti, di crescita. In un certo senso, racconta l’immagine che ci piacerebbe avere di noi, di persone dalla mentalità aperta, comprensive e multiforme ma, dall’altro lato, anche il timore di non riuscire a reggere la botta, di non essere in grado di compiere il passo fino in fondo.
Considerazioni finali
Se non è possibile negare il forse eccessivo livello di patinatura delle scene, che a qualcuno potrebbe pure risultare un po’ stucchevole, ad altri amanti del genere (penso banalmente a chi apprezza lo stile di Wes Anderson soprattutto da I Tenenbaum del 2001) sarà invece un viaggio romanticissimo in un’epoca passata ma non dimenticata.
Anche la sigla iniziale che vede i protagonisti scalare velocemente la scritta Hollywoodland, suona come una magica poesia notturna, e come un’eco nel cuore ti porta alla malinconia di un passato che non hai mai vissuto.