Non spaventarsi, ma nemmeno fare finta di niente 

Non combattere la Fed. Questa massima viene sempre ripetuta quando le banche centrali tagliano i tassi.

Non combattere la Fed. Questa massima viene sempre ripetuta quando le banche centrali tagliano i tassi, cosa che fanno di solito quando l’economia comincia a indebolirsi. La massima, in quel contesto, ha una funzione di incoraggiamento. Se vendete il vostro portafoglio azionario (o se aspettate troppo a comprare), sappiate che avete contro tutta la potenza di fuoco delle banche centrali che, tagliando i tassi, manifestano la loro volontà di sostenere il ciclo economico e, in caso di recessione, di garantirgli una veloce ripresa.

La massima di solito funziona, anche se non subito. Bisogna aspettare che la cura cominci ad avvicinarsi al dosaggio giusto, il che richiede di solito non uno ma più ribassi dei tassi. Si deve poi lasciare il tempo a chi ha le posizioni più fragili di uscire dal mercato. Va infine lasciata crescere nel mercato la sensazione che non ci saranno mai più grandi rialzi. A quel punto per comprare non occorre che l’economia dia cenni di ripresa, basta che mostri segnali di stabilizzazione.

Che ne è però della massima di non combattere la Fed quando la Fed avvia un ciclo di rialzo dei tassi? Non è forse un segnale di vendita il fatto che la banca centrale, come si usa dire, inizi a vuotare il tavolo degli alcolici quando gli ospiti della festa iniziano a parlare a voce molto alta?

Storicamente non è così. Nei grandi cicli di rialzo dei tassi degli anni Novanta, Duemila e Dieci, le borse, dopo il primo rialzo, hanno continuato a salire per almeno sei anni. In due dei tre i casi c’è stato un anno di intervallo a metà del ciclo espansivo (1994-1995, 2015-2016), con una correzione di borsa di alcuni mesi, fastidiosa ma non drammatica, e poi il rialzo azionario è ripreso.

C’è dunque da alzare le spalle di fronte a una Fed che annuncia per marzo l’inizio di un ciclo di rialzo dei tassi? No. In una fase storica in cui i mercati sono sempre più dipendenti dalle decisioni delle banche centrali, queste decisioni vanno sempre valutate con grande attenzione, cercando in particolare di capire quali sono le considerazioni che stanno loro dietro. Nella conferenza stampa seguita all’ultima riunione del Fomc, Powell ha affermato più volte che questa economia è diversa da quella a cui eravamo abituati. Non ha elaborato il concetto, ma è lecito supporre che si riferisse alle rigidità dell’offerta, un problema che nei quarant’anni passati abbiamo incontrato poco o nulla.

In questi mesi abbiamo visto le banche centrali dare la colpa dell’inflazione all’offerta rigida, mai alla domanda eccessiva. Poiché la politica monetaria controlla la domanda, ma non l’offerta, dare tutte le colpe all’offerta è stato anche un modo per autoassolversi da ogni responsabilità rispetto all’inflazione.

È vero, le politiche dell’offerta spettano tipicamente ai governi. Sono loro che la regolano, agendo sulla concorrenza, sul fisco, sugli investimenti pubblici e sulle regole più meno rigide per le imprese e per l’occupazione. E che cosa hanno fatto i governi nell’era della pandemia e della deglobalizzazione, due fattori che da soli basterebbero a spiegare le nuove rigidità dell’offerta? Hanno cercato di creare nuova offerta o l’hanno a loro volta resa più rigida? Hanno fatto entrambe le cose. Hanno stimolato l’offerta promuovendo investimenti senza precedenti nei semiconduttori e nelle fonti alternative di energia. L’hanno d’altra parte resa più rigida attraverso la reregulation, la risindacalizzazione del lavoro, le politiche sui salari minimi, le restrizioni alla ricerca di nuove fonti di energia fossili, la chiusura del nucleare (in Germania), i lockdown e molto altro.

Il risultato netto, visto dalla Fed, è che le rigidità dell’offerta sono solo in parte transitorie. Molte rigidità, in particolare quelle legate alla deglobalizzazione e alla transizione energetica (nonché, forse, al mercato del lavoro), cominciano ad apparire strutturali.

La dolorosa esperienza delle due crisi petrolifere degli anni Settanta (due tipici shock da offerta) ha insegnato alle banche centrali che l’inflazione provocata dalle difficoltà dell’offerta va ignorata e non va combattuta frenando la domanda. Il che è giusto se gli shock sono temporanei, come fu il caso allora. Che fare però se le rigidità dell’offerta diventano strutturali? Ridurre la domanda o lasciare correre l’inflazione, permettendole di mettere radici? La decisione in ultima istanza è politica. Isabel Schnabel sostiene che la Bce, di fronte alla greenflation da transizione energetica, dovrà alzare i tassi. La maggioranza dei membri del board della Bce, espressione di paesi molto indebitati, preferisce accettare l’inflazione.

In America la scelta politica dell’amministrazione Biden è invece di dare priorità al contenimento dell’inflazione, a condizione che il pieno impiego raggiunto non venga messo in discussione. Bisogna assolutamente arrivare alle elezioni di novembre con le tensioni sui prezzi in calo. Non importa che si torni al due per cento, ma bisogna dare l’idea di un’inversione di tendenza. Il fatto che lo dicano anche i tre nuovi membri del board della Fed, appena nominati da Biden e di sicura fede democratica, ne è la conferma.

Il tempo per fare scendere l’inflazione dal 7 al 3-4 per cento entro novembre non è molto e la Fed deve riuscire a dare prova di grande abilità. Deve frenare la domanda alzando i tassi almeno quattro volte entro fine anno senza danneggiare troppo un’economia che, ondate temporanee di Covid a parte, è programmata per un 2022 ancora forte. La Fed deve anche cercare di calmare i mercati finanziari senza indebolirli in modo strutturale.

Il senso del messaggio di Powell è che i rialzi ci saranno sul serio, ma non saranno ritmati come nei cicli passati e seguiranno invece da vicino l’andamento dell’economia reale. In questo ci sono da vedere una buona dose di pragmatismo e il desiderio di non indurre i mercati a ipotizzare quegli errori di policy che sarebbero invece in agguato nel caso di un programma rigido di rialzi.

Chi sta sui mercati dovrà seguire attentamente, nell’area a reddito fisso, come evolverà il mix di rialzi dei tassi e di Quantitative tightening. Finché prevarrà il primo aspetto, quello dei rialzi, la curva tenderà ad appiattirsi. Quando entrerà in gioco il secondo (forse già in luglio) riprenderà pendenza.

In borsa è possibile un anno di grande tecnologia ferma e di tecnologia speculativa ancora debole. Nel complesso si cercherà di calmare la borsa più rendendola volatile che facendola scendere. La volatilità potrà ancora produrre nuovi massimi, soprattutto nei momenti in cui l’inflazione apparirà avviata a rientrare su livelli più accettabili.

Alessandro Fugnoli
Alessandro Fugnoli
Alessandro Fugnoli, strategist e autore della newsletter il rosso e il nero” entra nel 2010 a far parte del team Kairos
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