Il fatto che i mercati azionari occidentali abbiano digerito il dato sull’inflazione USA al consumo di maggio con una serie di ritocchi, anche se di poco conto, ai massimi storici o annuali, dovrebbe essere considerato come un’attestazione di fiducia nella FED, che da qualche mese ha messo la faccia del sempre più evanescente Jerome Powell sulla presa d’atto che l’inflazione sta rialzando la testa, ma anche sulla previsione che sarà un fenomeno transitorio, destinato a rientrare presto. Perciò la Fed non ha necessità di cambiare la sua politica monetaria estremamente accomodante e nemmeno di cominciare a discutere sui tempi della prima mossa che, quando sarà il momento, dovrà adottare per avviare il ritorno alla normalità monetaria. Questa mossa sarà il tapering. Con questo nome si identifica la riduzione del flusso di acquisti sul mercato di titoli obbligazionari (Treasury e obbligazioni garantite dallo Stato), che ora procede al ritmo medio di 120 mld $ al mese, senza limiti di tempo stabiliti.
La fiducia dei mercati finanziari per la magnanimità monetaria della FED, che li sta pompando, con brevi interruzioni, ormai da 13 anni, ha vacillato solo per brevi momenti nei mesi scorsi. Ogni titubanza è stata finora superata dagli interventi perentori di Powell e di parecchi altri membri della FED, che hanno ribadito a più riprese la linea della “transitorietà”. I mercati non hanno perso l’ottimismo nemmeno la scorsa settimana, quando è uscito il dato dell’Indice dei Prezzi al Consumo (PCI) USA di maggio, che ha evidenziato un secondo balzo mensile consecutivo dei prezzi fino a portare il tasso annuo di inflazione ufficiale al 5% (3,8% quello “core”, senza i prezzi di alimentari freschi ed energia).
Ieri però, oltre alla costatazione che l’inflazione sta rialzando la testa anche in Europa, con quella tedesca che è salita al 2,5% annuo, è arrivato anche per gli USA un altro pessimo segnale, che getta le basi per il probabile proseguimento della crescita del tasso di inflazione anche in futuro.
L’Indice dei Prezzi alla Produzione (PPI) di maggio in USA è salito in un anno del 6,6%, rispetto al 6,2% di aprile ed al 6,3% atteso dagli analisti. Anche il dato “core” ha fatto un bel balzo, dal 4,1% annuale di aprile al 4,8% di maggio.
Il PPI misura i prezzi dei prodotti quando escono dalla fabbrica, cioè prima che arrivino sugli scaffali della grande distribuzione al consumo. Ha una funzione anticipatrice sui prezzi al consumo. Un incremento del PPI tende a favorire incrementi del PCI nei mesi successivi.
In ogni caso evidenzia che i produttori stanno trasferendo in abbondanza sui prezzi di vendita l’aumento dei costi che da mesi subiscono sulle materie prime, sull’energia, ora anche sulle buste paga, dato che in ampie zone è difficile reperire manodopera. Molti disoccupati finora, piuttosto che presentarsi alle chiamate per l’assunzione, hanno preferito incassare i lauti sussidi anti-Covid erogati da Biden a febbraio per 1.900 mld $.
Sta di fatto che l’inflazione fiorisce con facilità, innaffiata dall’enorme getto monetario erogato dalla FED. Basti pensare che la Base Monetaria M2, cioè la moneta a disposizione degli americani, dal febbraio 2020, quando scoppiò la pandemia, a fine aprile 2021 è cresciuta del 29,7%.
Con tutti questi dollari affluiti sui conti correnti non sarà certo molto forte nei prossimi mesi la resistenza agli aumenti di prezzo da parte dei consumatori, che ora possono spendere con maggior facilità, grazie alla fine delle restrizioni.
Il brutto dato sul PPI ieri ha fatto di nuovo vacillare un po’ la convinzione che la situazione sia sotto il pieno controllo della FED.
L’indice SP500, dopo aver migliorato in apertura di seduta di 2 punticini il suo massimo storico, ha subito messo la retromarcia ed ha passato in negativo il resto di una seduta comunque poco volatile, per chiudere con un saldo di -0,20%, in attesa che la FED questa sera fornisca la sua interpretazione dei fatti. Peggio ha fatto il Nasdaq100, che ha interrotto con un -0,69% la serie di 7 chiusure positive consecutive. Anche l’Europa ha avuto le ali tarpate dalle incertezze USA e con Eurostoxx50 ha limitato il suo rialzo a +0,26%, alla fine di una seduta poco volatile.
Intanto gli investitori si aspettano che oggi la FED, bontà sua, chiarisca un po’ meglio il significato del concetto di “inflazione transitoria”.
Nel linguaggio comune l’interpretazione dovrebbe essere: che dura poco. Però stiamo vedendo che l’inflazione ha cominciato a salire a febbraio in modo educato, ma da marzo in poi il crescendo è stato sempre più impetuoso ed ora l’indice PPI ci dice che nemmeno a giugno la salita si arresterà.
Dopo quanto tempo il transitorio diventa permanente? Anche perché intanto i rendimenti reali diventano sempre più negativi.
Sarebbe molto spiacevole scoprire che la FED, spiazzata da una inflazione che da transitoria è diventata stabilmente galoppante, deve inseguirla con una aggressiva variazione della politica monetaria in senso restrittivo.
Fino a quando potrà durare la pazienza dei mercati e la loro fiducia nelle capacità di previsione e di controllo della situazione da parte della FED è difficile da ipotizzare.
Per questo temo che stasera Powell verrà messo sulla graticola da una sfilza di domande di chiarimento da parte dei giornalisti che parteciperanno alla sua Conferenza Stampa.
Sarà molto importante il linguaggio che userà. Anche quello non verbale.