Tempesta sulle commodity: volano petrolio, grano e nickel

Dalla pompa di benzina al piatto, dal microprocessore ai mobili, più che una minaccia è ormai una promessa di inflazione e la guerra procede

La guerra fa paura, sempre più paura, anche ai mercati.

A poco serve l’avvio della delegazione russa verso il terzo round di negoziati in Bielorussia con la controparte ucraina. A poco serve anche il cessate il fuoco a supporto di corridoi umanitari (ma solo verso Russia e Bielorussia e quindi rifiutati da Kiev) in partenza da Kiev, Mariupol, Kharkiv e Sumy. A poco serve la decisione della Cina di partecipare a una mediazione tra Russia e Occidente.

Il decollo dei prezzi del greggio verso livelli che non si vedevano dal 2008, l’anno del fallimento di Lehman Brothers, racconta bene la tensione sempre più forte della geopolitica e della finanza internazionale. Mentre la Russia ammassa truppe per l’attacco finale a Kiev, che si prepara a resistere e quindi a un probabile bagno di sangue, i mercati tremano e i fronti finanziari di questo conflitto si espandono. Lo racconta bene il greggio, da sempre termometro geopolitico tra i più importanti, lo raccontano bene il gas e le altre materie prime, che ormai minacciano sempre più apertamente la ripresa economica del post pandemia, mettono in forse le politiche delle banche centrali, chiamano a interventi straordinari governi e alleanze. Lo raccontano ovviamente i mercati azionari con i loro crolli di oggi che ancora una volta molti trader descrivono con parole usate anche per questo inatteso e spaventoso revival del conflitto in Europa: “L’indicibile è diventato possibile”.

Il petrolio

Il petrolio greggio nella tarda mattinata di un lunedì da panic selling riduce moderatamente i ribassi monstre delle prime ore. Il rally del Brent rallenta a un 3,6% che sull’Ice si traduce in 122,39 dollari per barile; ma l’allungo 139,13 dollari su livelli del 2008 lascia un graffio sui grafici che avrà delle conseguenze. Stessa storia per il WTI: 118,4 dollari al barile (+2,4%) dopo un top a 133,46 dollari anch’esso a quote inesplorate da 14 anni. In pratica è un terremoto e, se già prima la campana dell’allarme suonava, adesso grida, soprattutto per Paesi come l’Italia che ha sul traffico su gomma l’80% del trasporto merci (ma è il 73% in Europa).

Già basterebbe, ma l’accerchiamento dei prezzi si allarga anche al gas con future sul TTF olandese che balzano sui livelli mai visti: vedere alle 9:30 di stamane sull’Ice un future sul gas olandese a 345 euro a MWh sembra un’allucinazione, ma potrebbe essere un incubo. Di certo questo significa costi più cari per il riscaldamento, poco male a ridosso della primavera, ma male in un periodo di restocking delle scorte. Malissimo sul fronte dei costi dell’energia elettrica.

A scatenare i rialzi è ancora la tensione su molteplici fronti: almeno due quelli più strettamente collegati all’energia. 

Il primo fronte è sulle dichiarazioni del segretario di Stato Usa (ossia il loro ministro degli esteri) Antony Blinken: “Stiamo discutendo con i nostri partner e alleati europei un sistema coordinato di bando delle importazioni del petrolio russo che al contempo garantisca ancora una fornitura appropriata di greggio nei mercati mondiali”. Per certi aspetti il petrolio russo in realtà è già diventato un tabù, troppi rischi e troppe difficoltà con le sanzioni, ma un bando coordinato è comunque una stretta ulteriore e più dolorosa che sa di escalation.

Il secondo fronte allarga anch’esso la ferita: è il dossier dell’Iran. Gli alleati stanno cercando di accelerare il rilancio del programma nucleare iraniano del 2015 (Jcpoa) con l’obiettivo di consentire a Teheran di mettere il proprio petrolio sul mercato (calmierandone i prezzi). Una fornitura di bilanciamento su cui però Mosca è subito intervenuta nelle trattative per bocca del ministro degli esteri Sergej Lavrov: l’eventuale accordo dovrà garantire che le sanzioni non influiscano sulle relazioni commerciali, economiche e di investimento previste dall’accordo Jcpoe sul nucleare iraniano. Insomma l’asse tra Mosca e Teheran non si tocca e sembra difficile che la Repubblica Islamica non sia stata interpellata su questo nuovo paletto moscovita.

Facendo un passo indietro Teheran e Beijing si inseriscono sempre più esplicitamente nelle tensioni geopolitiche sul caso ucraino.

Le altre materie prime: dal grano…

Ma il disastro non è solo sull’energia (che già da sola ha portato l’inflazione a livelli inusitati in Europa). I rincari colpiscono un ampio ventaglio di materie prime i cui prezzi lievitano e rompono filiere internazionali e nazionali, produzioni, industrie e consumi. Scott Morrison, il primo ministro del Commonwealth d’Australia, ha dichiarato che nessuno oggi ha il potere della Cina di fermare l’invasione russa dell’Ucraina e bloccare l’escalation nell’Europa Orientale. Morrison aveva già criticato la decisione cinese di liberalizzare l’importo di grano dalla Russia. Sul grano si combatte d’altronde un’altra battaglia di questa guerra globale dei prezzi. La Russia ne è il terzo produttore mondiale dopo Cina e India, con 85,9 milioni di tonnellate l’anno, poco meno del doppio degli Stati Uniti e più di 12 volte la produzione annuale dell’Italia (circa 7 milioni di tonnellate). Un protagonista del grano mondiale è anche la stessa Ucraina, che produce 26,2 milioni di tonnellate di grano l’anno e ha appena deciso di bloccare l’export carne, segale, avena, zucchero, grano saraceno, miglio e sale, vincolando anche quello di grano mais, pollame, uova e olio al permesso del ministero dell’Economia. Coldiretti venerdì scorso ricordava che l’Italia importa il 64% del proprio grano per pane e biscotti e il 53% del mais per il bestiame di cui proprio l’Ucraina è il secondo fornitore con oltre il 20% (da lì viene anche il 5% dell’import nazionale di grano). Appena ieri la stessa Coldiretti notava che se la Russia conquistasse l’Ucraina otterrebbe circa il 29% delle esportazioni mondiali di grano tenero per la panificazione, il 19% del commercio di mais per bestiame e l’80% dell’olio di girasole.

Sui prezzi il salto è stato già fatto. I future a Chicago sul grano in una settimana sono cresciuti di oltre il 40% con nuovi record a 14 anni (ancora il 2008…) a 12,09 dollari a bushel (circa 27,2 chili). L’associazione dei consumatori Aduc, riportando l’allarme dei fornai, faceva una ricognizione anche di questo concretissimo aspetto dei prezzi. Consorzi agrari d’Italia parlava di grano tenero fra i 342 e i 351 euro a tonnellata (+12%), mais a 330 euro (+14,5%), mentre il gran duro si manteneva stabile grazie alle importazioni dal Canada (da dove prendiamo una buona parte delle nostre forniture ignorando il tema del glifosato lì ampiamente impiegato mentre qui è vietato).

I prezzi ancor più allarmanti della Borsa di Chicago, cui fa riferimento Coldiretti, sono però da tenere d’occhio perché poi fanno mercato. Dopo l’energia è lo stesso Fondo Monetario Internazionale a citare il rincaro del grano e di altri cereali tra le emergenze: la lievitazione dei prezzi di energia e grano aggiunge inflazione a quella generata dalla rottura delle catene globali di approvvigionamento e dal rimbalzo dell’economia post-Covid. 

…al nickel e all’alluminio

Altri metalli tipicamente industriali e strategici per un Paese manufatturiero come l’Italia hanno subito un duro impatto dal conflitto. L’alluminio (su cui pesa più che altrove il rincaro dell’energia) è balzato di quasi il 15% in una settimana toccando i 3.867 dollari a tonnellata a Londra, oggi supera 4 mila dollari. Sono record drammatici. La russa Rusal è il maggiore produttore mondiale di alluminio fuori dalla Cina. Lunghe operazioni ne avevano disegnato la strategia, un passaggio fondamentale era stato nel 2007, quando aveva raggruppato le attività dell’alluminio di SUAL e di Glencore, diventando un colosso con 110 mila addetti in 17 Paesi. Oggi Rusal è controllata dalla britannica En+ (56,88% del capitale, un altro 25,52% è di SUAL). In numeri En+ ha una capacità di 3,9 milioni di tonnellate di alluminio l’anno e ben 15,1 GW di potenza (soprattutto idroelettrica) installata. L’oligarca Oleg Deripaska ne controlla quasi il 45% del capitale e il 35% dei diritti di voto: non a caso è stato uno dei primi a opporsi alla guerra in Ucraina. In questi giorni la guerra costringe piani ultradecennali a un’inversione di marcia: En+ studia la separazione delle attività internazionali del gruppo in una nuova società gestita dal management e da investitori non russi. Il sogno di unire l’economia e le attività minerarie russe ai mercati globali, dopo la creazione di un gigante capace di sfidare colossi come Rio Tinto o BHP Group, inciampa sulle guerre di Mosca. È ancora fresco il ricordo di quando, nel 2018, le sanzioni Usa contro Deripaska paralizzarono l’azienda e, anche se oggi Rusal non è oggetto di misure, i rischi operativi sono inevitabili e gravi. Come i prezzi dimostrano.

Vladimir Potanin è anche lui uno dei maggiori miliardari russi. È il presidente di Interros Limited, che controlla più di un terzo di Norilsk (Nornickel), il primo produttore mondiale di nickel: da sola copre circa il 5% della produzione mondiale del metallo che – tra le altre cose – serve per le batterie dei veicoli elettrici. Un’altra attività strategica copre il 40% del palladio di largo impiego nelle marmitte catalitiche e nei semiconduttori e si potrebbero aggiungere cobalto e rame.

La fuga dalla finanza e dall’industria russa si è già sentita in un calo del titolo di Norilsk del 17%, nonostante il decollo delle materie prime che produce. Così, mentre il nickel guadagna il 40% in un giorno e il 93% da inizio anno a Londra e mentre il palladio si apprezza da inizio 2022 del 73%, il fedelissimo di Putin, il presidente e fondatore di Interros Potanin vede falciato il valore del proprio patrimonio e lascia il consiglio del museo Guggenheim di New York.

Un altro distacco russo dal mondo che però non rallenta di un passo l’avanzata delle truppe verso Kiev.

(Giovanni Digiacomo)

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