Giappone e tre decenni di pacchetti di stimoli depressivi

Il New York Times riporta che "il Giappone approva nuovi stimoli da $1.100 miliardi per combattere la crisi sanitaria".

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Il New York Times riporta che "il Giappone approva nuovi stimoli da $1.100 miliardi per combattere la crisi sanitaria". Come elabora il Times, lo “stimolo record del Giappone da ¥117.000 miliardi, che sarà finanziato in parte da un secondo budget extra, ha seguito un altro pacchetto da ¥117.000 miliardi approvato il mese scorso. Il nuovo pacchetto porta la spesa totale del Giappone per combattere la crisi sanitaria a ¥234.000 miliardi, ovvero circa il 40% del prodotto interno lordo. I pacchetti (quest'anno) hanno portato la dimensione del budget ad un record di ¥160.000 miliardi, con nuove emissioni di obbligazioni che rappresentano il 56,3% delle entrate annuali e hanno sollevato lo spettro di ulteriori emissioni obbligazionarie per compensare il calo delle entrate fiscali”.

È uno “stimolo record”, sentenzia il Times. Roba eccitante! Sicuramente funzionerà, no!?

Ma perché tutto ciò dovrebbe aiutare a "combattere" una "crisi sanitaria" o a "stimolare" l'economia giapponese? Per “economia” non ci riferiamo, come economisti, all'output, ovvero la produzione di beni e servizi, in rapporto al PIL reale? Come può la spesa in deficit creare ricchezza? Non ci sono prove a sostegno di questa tesi.

La parte "fresca" del titolo del Times è meglio tradotta come "recente", perché negli ultimi tre decenni, in mezzo a varie crisi, il Giappone ha adottato letteralmente dozzine di pacchetti di "stimolo" tra cui non solo una massiccia spesa in disavanzo ma tagli dei tassi, una politica di interessi a zero (ZIRP), "QE" (monetizzazione del debito pubblico da parte della banca centrale) e persino acquisti diretti di debito privato. Nessuno di questi pacchetti ha mai dimostrato di migliorare le prestazioni economico-finanziarie del Giappone, infatti la sua performance è stata erosa dalla gigantesca spesa pubblica.

La performance economico-finanziaria del Giappone ha raggiunto il picco nel 1989-1991 e, a parte i periodi di breve rimbalzo, è rimasta stagnante sin da allora, a causa della degenerazione delle finanze pubbliche. Vale la pena di ricordare le cause del picco e dei successivi “decenni perduti”. Alla fine degli anni '80 la Banca del Giappone (BoJ), su consiglio di importanti economisti, interpretò il decennio come artificiale, una mera "bolla" e decise di farla "scoppiarle" con rialzi punitivi dei tassi d'interesse. La BoJ ha invertito la curva dei rendimenti, il che è un segnale di recessione soprattutto perché rende non premia l'intermediazione del credito ("prendere in prestito a breve, prestare a lungo").

Dopo l'inversione della curva dei rendimenti firmata dalla BoJ, il PIL reale del Giappone decelerò da una crescita del 9,4% nel 1988 a solo il 4% nel 1989; nel 1993 il PIL si stava contraendo. Anche la produzione industriale decelerò, dal 7,4% nel 1988 al solo 3,5% nel 1989, prima di contrarsi del 13% tra il 1991 e il 1993. Oggi l'indice di produzione industriale del Giappone rimane del 12% al di sotto del picco del 1991. Anche l'indice azionario Nikkei è crollato dopo i rialzi dei tassi della BoJ: un 60% tra la fine del 1989 e la metà del 1992. Nel 2009 il minimo dell'indice è stato dell'80% più basso rispetto al picco nel 1989; oggi l'indice rimane del 46% al di sotto del picco del 1989.

Si potrebbe dire che la BoJ ha sicuramente “avuto successo” nella sua missione di combattere la presunta artificiosità della performance economico-finanziaria del Giappone negli anni '80; da allora i politici giapponesi hanno diligentemente seguito i consigli di keynesiani come Paul Krugman, implementando dozzine di "pacchetti di stimolo". Infatti hanno cercato di rilanciare artificialmente l'economia giapponese, non deregolamentandola, non tagliando le tasse o frenando la crescita dello stato, ma con una massiccia spesa pubblica in deficit.

Il seguente grafico illustra il drammatico cambiamento nelle finanze pubbliche del Giappone dopo il 1990. Nei quindici anni precedenti al 1990, la crescita della spesa pubblica e delle entrate fiscali è andata quasi in tandem; le nuove emissioni di debito erano limitate e addirittura calarono tra il 1982 ed il 1990. Da allora, tuttavia, la crescita della spesa ha superato di gran lunga la crescita delle entrate fiscali, principalmente a causa di aumenti delle tasse e di un'economia stagnante. La spesa in disavanzo e la nuova emissione di debito sono state privilegiate: la ricetta keynesiana.

Decenni di spesa cronica in deficit hanno peggiorato l'indebitamento del Giappone (rapporto debito/PIL). Il grafico qui sotto mostra che il debito è ora pari al 235% del PIL, rispetto al 175% nel 2010, al 125% nel 2000, al 64% nel 1990 e al 50% nel 1980. Dopo aver rialzato il tasso di riferimento alla fine degli anni '80 per combattere una "falsa" prosperità , la BoJ da allora l'ha drasticamente riabbassato. Per un quarto di secolo il tasso è stato inferiore all'1% non tanto per “stimolare” l'economia, ma per consentire al Tesoro giapponese di prendere in prestito in modo più conveniente. La BoJ è stata politicamente dipendente, servendo principalmente chi spendeva in deficit.

Ci si aspettava che alla fine questa spesa in disavanzo pluridecennale avrebbe "stimolato" l'economia o le azioni del Giappone, ma soprattutto i keynesiani (e alcuni monetaristi) se lo aspettavano. Chi invece crede all'economia di Say, non se lo aspettava; anzi, ha previsto che i vasti aumenti della spesa pubblica e dei prestiti avrebbero ostacolato la prosperità.

La seguente tabella mette a confronto la performance del Giappone negli ultimi tre "decenni perduti" (1990-2020) ed i precedenti tre decenni di robusta crescita (1960-1990). Il debito pubblico è cresciuto del 5,8% all'anno nei tre decenni successivi al 1990, mentre l'indebitamento è aumentato del 4,2% all'anno; nel frattempo il PIL reale è cresciuto solo dell'1,0% all'anno, il NIKKEI è sceso dell'1,7% all'anno e anche la produzione industriale si è contratta. Alla faccia dello "stimolo" giapponese! La ricetta keynesiana è stata peggio che inutile. È stata dannosa! Eppure, più fallisce, più i suoi aderenti insistono su dosi ancora maggiori di spesa in deficit.

Nei tre decenni precedenti al 1990, prima che la consulenza politica keynesiana diventasse dominante in Giappone, la nazione ha goduto di una crescita economica robusta e sostenibile grazie alla rettitudine fiscale. La tabella qui sopra chiarisce che il debito pubblico e l'indebitamento pubblico del Giappone salirono rispettivamente solo del 2,6% all'anno e del 2,0% all'anno, mentre il PIL reale crebbe del 6,4% all'anno, la produzione industriale del 7,2% all'anno e il Nikkei del 12,2% all'anno. Le prestazioni del 1990 superano le prestazioni successive al 1990. La differenza è dovuta principalmente al tragico sospetto di prosperità che prese piede in Giappone alla fine degli anni '80 e alla successiva adozione dei cosiddetti pacchetti di "stimolo", che, secondo me, sono depressivi:

Molti economisti ritengono che la spesa pubblica e l'emissione di denaro creino ricchezza o potere d'acquisto. Non è affatto così. Il nostro unico mezzo per ottenere beni e servizi reali è la creazione di ricchezza, la produzione. Con il baratto nessuno viene al mercato aspettandosi di comprare cose senza offrire qualcosa in cambio. Un'economia monetaria non altera questo principio chiave. Quello che spendiamo deve provenire dal reddito, che a sua volta deve provenire dalla produzione. La Legge di Say insegna che solo l'offerta costituisce la domanda: dobbiamo produrre prima di domandare, spendere o consumare. La domanda non è un semplice desiderio di spesa, ma desiderio di un maggiore potere d'acquisto.

I credenti nello "stimolo" affermano anche che la spesa pubblica comporta un magico effetto "moltiplicatore" sulla produzione aggregata, a differenza della spesa del settore privato. Sostengono la maggiore "propensione al consumo" dello stato. Ma consumare è il contrario di produrre. Gli stati certamente consumano e ridistribuiscono la ricchezza, e soprattutto la dividono; la matematica insegna che nulla – inclusa la ricchezza – può essere moltiplicata per divisione. I cosiddetti “moltiplicatori” immaginati dagli economisti di oggi sono, infatti, divisori. Molti studi hanno verificato tal principio.

Per vedere perché lo "stimolo" deprime veramente, basta consultare le basi. La creazione di denaro pubblico e di debito pubblico non è creazione di ricchezza; non è cibo, vestiti, riparo, energia o simili. Anche il denaro e il debito generati privatamente, che riflettono le esigenze del commercio e delle lunghe catene di produzione, rappresentano, facilitano e fanno circolare ricchezza, ma non sono essi stessi ricchezza. Nel frattempo i risparmi presi in prestito dagli stati non sono più disponibili per le imprese produttive, e quando uno stato crea denaro fiat oltre la volontà di possesso di chi lo usa, il denaro perde potere d'acquisto, il che aumenta il costo della vita. Queste non sono strade verso la prosperità.

Una politica pubblica tragicamente sbagliata dovrebbe essere abbandonata, non emulata. Purtroppo gli Stati Uniti, sin dal 2001, hanno copiato l'approccio del Giappone, con un ritardo di circa un decennio. Quella che alcuni qui chiamano politica fiscale-monetaria "non ortodossa" è stata "normalizzata" per la prima volta in Giappone. Le due nazioni differiscono per alcuni aspetti importanti, anche demografici, ma ciò non annulla le leggi dell'economia (o della finanza pubblica). Gli Stati Uniti e il Giappone sono vecchi stati che non possono permettersi quello che stanno facendo; tuttavia i loro politici non riescono ad avere successo elettorale senza persistere nella loro dissolutezza. La storia del Giappone segnala l'esito per chi la vuole imitare: stagnazione prolungata.

Di Richard Salsman

Traduzione di Francesco Simoncelli

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