Turchia-Ue, un patto pagato dai profughi. E dalla stessa Ue

L’Unione Europea negli ultimi anni ha arginato l’arrivo di rifugiati delegando i controlli di frontiera ai paesi di transito, Libia e Turchia su tutti. Un’arma che Erdogan intende far pesare nei negoziati in corso. A farne le spese è la credibilità stessa dell’Ue.

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L’Unione Europea negli ultimi anni ha arginato l’arrivo di rifugiati delegando i controlli di frontiera ai paesi di transito, Libia e Turchia su tutti. Un’arma che Erdogan intende far pesare nei negoziati in corso. A farne le spese è la credibilità stessa dell’Ue.

Il ricatto della Turchia

Dopo aver lanciato l’operazione “Primavera di pace” contro i curdi siriani, nel 2019 il presidente turco Recep Erdogan dichiarò: “Paesi dell’Unione Europea, se provate a chiamare la nostra operazione un’invasione allora la risposta è semplice: apriremo i nostri confini e vi manderemo 3,6 milioni di rifugiati!”. In effetti, la Turchia è il paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo, un record che detiene da sei anni. E ne ospita un numero così elevato perché il 18 marzo 2016 ha firmato un accordo con l’Unione Europea, a seguito del quale si è impegnata a chiudere la rotta del Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia) in cambio di 6 miliardi di euro di trasferimenti dalla Ue.

Esternalizzare i controlli di frontiera

Questo si chiama “esternalizzazione dei controlli di frontiera” e la dichiarazione di Erdogan esprime con immediatezza tutta la fragilità e l’instabilità di questo tipo di accordi. Le sue parole ricordano minacce simili espresse da Mu’ammar Gheddafi contro l’Italia in passato. Niente di nuovo sotto il sole, dunque.

Nonostante il numero mondiale di profughi continui a salire, l’Unione Europea è riuscita ad arginare la cosiddetta crisi dei rifugiati in Europa – culminata nel 2015 con oltre 1,3 milioni di domande di asilo presentate in paesi Ue – proprio delegando i controlli di frontiera ai paesi di transito: alla Turchia nel 2016 e alla Libia nel corso del 2017.

Così, a partire dal 2018 i paesi europei hanno vissuto un periodo di relativa calma nell’arrivo di migranti. La figura 1 riporta il numero di sbarchi mensili da gennaio 2018 ai primi giorni di aprile 2021 lungo le tre principali rotte di ingresso in Europa: Mediterraneo orientale (Grecia), centrale (Italia) e occidentale (Spagna). Nel pieno della crisi dell’autunno del 2015, le tre rotte ricevevano in totale tra i 130 e i 220 mila ingressi di immigrati irregolari ogni mese (la maggior parte dei quali in Grecia). Dall’inizio del 2018, invece, non si sono più raggiunti i 20 mila mensili. Ci sono differenze importanti tra le tre rotte: la Spagna non registrava numeri così alti da anni, mentre per le altre due siamo ritornati ai valori pre-crisi. In particolare, per l’Italia la linea è piatta e ben al di sotto delle altre due per quasi tutto il 2018 e 2019.

Nel corso del 2019, poi, il numero di sbarchi è tornato leggermente a crescere in Spagna e Italia, mentre la Grecia ha registrato un aumento significativo, che ha fatto temere l’inizio di una nuova crisi migratoria causata dall’apertura delle frontiere turche. La situazione si è poi normalizzata con l’inverno e l’avvento della pandemia ha congelato l’arrivo dei migranti lungo le tre rotte per tutta la prima metà del 2020. I numeri sono tornati a crescere con l’estate in Italia e, soprattutto, in Spagna, mentre la rotta del Mediterraneo orientale è rimasta poco battuta nell’ultimo anno.

Il coinvolgimento della Libia nel controllo del Mediterraneo 

Ma come e quando si sono ridotti gli sbarchi in Italia? Per rispondere, guardiamo ai dati sugli arrivi giornalieri sulle coste italiane a partire dal 1° gennaio 2016 (figura 2). La riduzione più drastica si è verificata sotto il governo Gentiloni. Nei primi sei mesi di quell’esecutivo (dicembre 2016-giugno 2017) si registrava una media di 460 sbarchi al giorno, scesa a 190 nel semestre successivo (luglio-dicembre 2017) e a 90 nel suo ultimo semestre. La diminuzione è frutto di un intenso lavoro condotto dal governo Gentiloni sul coinvolgimento della Libia nel presidio delle sue acque territoriali fatto di accordi più o meno espliciti: dal Memorandum d’intesa firmato dallo stesso presidente del Consiglio con al-Sarraj nel febbraio del 2017 al “summit riservato” del ministro dell’Interno Marco Minniti con il generale Haftar a fine agosto 2017. Ma è anche frutto di fornitura di motovedette, supporto logistico alle operazioni in mare e formazione (nel doppio senso di creazione e addestramento) della cosiddetta guardia costiera libica. Tutto questo accompagnato da un intervento europeo che, con la missione Sophia, ha iniziato ad addestrare la guardia costiera libica già dall’ottobre 2016.

L’ulteriore riduzione dei flussi in arrivo in Italia dalle coste nordafricane durante il periodo del governo Conte I – con una media di circa 30 sbarchi al giorno tra giugno 2018 e agosto 2019 – sembra invece inserirsi nella tendenza decrescente impostata durante l’amministrazione precedente. La politica dei “porti chiusi”, di fatto, si è caratterizzata soprattutto per aver complicato l’attracco nei porti italiani alle navi delle Ong, che però contribuiscono solo in piccola parte agli sbarchi totali.

Nonostante la fragilità degli accordi stipulati con i leader di un paese sempre più instabile, frammentato e immerso nella guerra civile, non si sono ancora verificate per l’Italia situazioni in cui la Libia mettesse in atto minacce e ricatti sulla falsariga dei metodi utilizzati da Erdogan contro la Grecia e l’Unione Europea. Complice delle relazioni distese tra i due paesi è stato anche l’atteggiamento dei vari governi succeduti a quello di Gentiloni, che hanno sempre sostenuto gli accordi siglati da Minniti nel 2017 e in nessuna occasione si sono esposti per mettere in discussione la sistematica violazione dei diritti umani all’interno dei centri di detenzione. Anche il recente viaggio di Mario Draghi in Libia, il primo all’estero da presidente del Consiglio, conferma la volontà da parte del nostro governo di voler chiudere un occhio in nome della stabilità e del controllo delle frontiere. A pagare il prezzo di questa stabilità, in termini di abusi, violenze, stupri e morte, però, sono ancora una volta i migranti stessi.

Di Francesco Fasani, Tommaso Frattini e Massimo Taddei

Questo articolo è la versione aggiornata del contributo apparso su questo sito nell’ottobre 2019 a firma Francesco Fasani e Tommaso Frattini.