Crisi demografica, i rischi per economia ed istruzione!

La crisi demografica comporta dei rischi per l’economia italiana. La crisi demografica abbraccia anche l’istruzione. Il quadro demografico italiano parla piuttosto chiaro. Con il ritmo tenuto dal nostro Paese, gli standard di crescita porteranno in una decina d’anni a contare 10 milioni di cittadini in meno.

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La crisi è da sempre sinonimo di rischio. Una legge che vale per ogni aspetto della vita umana e sociale, quindi anche per l’anima economica di un Paese. La crisi demografica comporta dei rischi per l’economia italiana. La crisi demografica abbraccia anche l’istruzione. Analizziamo la crisi, un passo per volta, l’economia, poi la cultura

L’intervento di Giuseppe Spadafora, vicepresidente Unimpresa analizza proprio questa problematica all’interno del contesto socio-economico italiano. 

Il concetto di crisi demografica è stato affrontato da molti e in diverse accezioni. Alex Cuppini sul suo canale YouTube affronta la questione mettendola in connessione con la crisi del mercato immobiliare

La crisi demografica italiana

Il quadro demografico italiano parla piuttosto chiaro. Con il ritmo tenuto dal nostro Paese, gli standard di crescita porteranno in una decina d’anni a contare 10 milioni di cittadini in meno.

Le previsioni non lasciano dubbi: un numero inferiore a 23 milioni di persone che lavoreranno, a dispetto di poco più di 59 milioni di italiani residenti. Un terzo di popolazione che dovrà andare a dare garanzia di quasi 18 milioni di pensioni tenendo conto, però, di un indice di sviluppo demografico negativo e anche di parecchio.

Pur non considerando il fattore pandemia, che ha delineato una soglia di circa 100 mila decessi in più nel 2020, trascinando il saldo a oltre 737 mila, gli standard di natalità proseguono in una incessante discesa da quasi un decennio, certificandosi a oggi a 7 nascite a dispetto di 13 decessi ogni mille abitanti. Una visione d’insieme che da su un contesto economico interno avvilente e privo di una prospettiva d’insieme.

Le priorità per combattere la crisi

Spadafora sostiene che famiglia e crescita demografica, lavoro e formazione/istruzione debbano rappresentare la priorità per eccellenza di qualsivoglia governo che abbia come volontà la fuoriuscita da questa fanghiglia dell’Italia. Stando al vicepresidente Unimpresa le premesse della scesa in campo del Presidente Draghi avevano fatto ben sperare, ma ora come ora pare che le necessità dell’Esecutivo guardino altrove.

Gli obiettivi fissati sull’agenda della politica italiana sembrerebbero almeno tre:

semestre bianco, elezioni del Presidente della Repubblica, elezioni politiche tra 18 mesi. Si è parlato e si è discusso molto in questo periodo, specie nelle ultime settimane: ma quali saranno con esattezza le strategie che verranno attuate per il conseguimento di un impatto funzionale e benefico sulle questioni inerenti alla crescita demografica e all’economia, ancora non è stato esplicitato. 

Con una somma di circa 200 miliardi da investire, si potrebbe virare con decisione su un cambio dell’assetto strutturale che abbiamo come obiettivo lo sviluppo, l’inclusività sociale e la re-distribuzione del reddito. Ovviamente la premessa d’obbligo sarebbe quella di servirsi di azioni politiche efficaci e concrete. 

La crisi e le perplessità sulla politica

Spadafora ribadisce invece come la realtà invece presenti un volto differente.

Il compendio di tale ipotesi sarebbe di facile intuizione tra le varie asserzioni di tutto il panorama parlamentare che, non disponendo di una nitida prospettiva e in ogni caso non potendo prendere decisioni, continuerebbe imperterrito ad indicare alternative alquanto seducenti mediaticamente ma prive di ogni valido e affidabile fondamento. 

Le perplessità del leader di Unimpresa tuttavia permangono, perché anche se vero è che il Presidente Draghi viene considerato come il deus ex machina del PNRR e almeno teoricamente sulla carta potrebbe anche procedere, sarà però l’UE a concedere le spese. 

Occorre puntare sul capitale umano, la partita si gioca tutta lì, altrimenti sarebbe persa in partenza. In quest’ottica servirà destinare ingenti risorse alle famiglie, in vista anche di un incremento e uno stimolo alle nascite. Questo il quadro di Spadafora. 

Del resto anche nel PNRR dell’ex premier Conte  era previsto, nell’ambito della missione 5 del piano, la valorizzazione della dimensione “sociale”, implicando in questa le strategie sanitarie, urbanistiche, abitative,  ei servizi per l’infanzia, del sostegno alle famiglie, ecc, riservando per tali iniziative circa 30 miliardi, ovviamente previa convalida dell’UE. 

Spadafora la chiude così, con una domanda pregnante: 

Per tanto la domanda rimane, la missione famiglia e natalità verrà finanziata? E se si, con quanti euro?

La crisi demografica e la sfida delle università

Altro tasto dolente, la sfida dell’università alla crisi demografica. Dall’economia siamo passati alle aule dei nostri atenei. Durante il prossimo ventennio saranno almeno 17 atenei a rimanere senza nuovi iscritti, la perdita degli immatricolati ammonterà a circa 260mila unità. L’elaborazione, anche in questo contesto, di nuove e repentine soluzioni sia sul piano dell’orientamento che delle strutture non è più prorogabile.

L’ISTAT prevede che nel 2040 i residenti nel nostro Paese compresi nella fascia di età tra i 18 e i 20 anni si aggireranno intorno a 1 milione e mezzo circa, per un totale di 235mila in meno rispetto al 2020 (-13%).

Se ad oggi per ogni 100 ragazzi (diciannovenni) potenzialmente immatricolabili all’università si contano 115 sessantasettenni (età legale per godersi la pensione), questa relazione nel 2040 potrebbe ingigantirsi in maniera vertiginosa sfiorando i 184 sessantasettenni ogni 100 diciannovenni.

Stando a questi standard, e quindi restando invariati il tasso di diploma e il tasso di immatricolazione nel prossimo ventennio, ci si potrebbe rimettere complessivamente – andando a calcolare la differenza tra ogni annata di immatricolati e l’anno accademico 2019/2020 ‒ circa 260mila immatricolati.

Considerando che la mediana degli immatricolati a ogni ateneo si avvicina alle circa 2.300 unità, ciò vuol dire che da qui al 2040 fino a 17 atenei potrebbero scoprirsi senza nuovi innesti tra le sue matricole.

Stando alle previsioni, gli immatricolati rimarranno in linea di massima costanti fino all’anno accademico 2028/2029 (variazioni periodiche nell’intorno di 4.500 immatricolati). Poi avrà inizio la drastica diminuzione, che andrà a toccare il suo picco più basso nel 2038.

La crisi demografica e accademica a Mezzogiorno

Un’idea sulle polarizzazioni del Paese, laddove possibile, perviene dalle analisi compiute anche a un livello più prettamente regionale.

Nei prossimi vent’anni l’insieme di ragazzi compresi tra i 18 e 20 anni andrà a ridursi ancor di più nel Meridione. Se nell’arco temporale che va dal 2020 al 2040 il picco minimo per l’intero Paese sarà toccato nel 2038 con una popolazione pari al 86% di quella del 2020, nel Mezzogiorno si conterà una collisione superiore (77% della popolazione del 2020).

Non è tutto, il Mezzogiorno e le Isole dovranno poi contrastare un doppio pericolo: da un lato il ridursi della popolazione giovanile e dell’altro un già scarso tasso di immatricolazione (58,6%), al di sotto a degli standard nazionali (61,6%).

Da segnalare che negli ultimi tempi gli investimenti pubblici in materia di istruzione sono stati tagliati, e non di poco. Lo Stato ha ristretto, sia in termini relativi che assoluti, l’assommare delle risorse riservato all’università. L’investimento di risorse di privati non è bastato a porre un freno a questo fenomeno. 

Per di più, stando a diversi studi, si è compreso quanto il budget indirizzato dalle famiglie italiane all’istruzione universitaria sia piuttosto esiguo. Vi è una discrepanza effettiva nelle spese destinate in istruzione tra le famiglie italiane in termini geografici, reddituali e per titoli di studi.

La crisi figlia di scarsi investimenti pubblici

La crisi si rispecchia in un tasso di investimenti pubblici e privati non propriamente adeguato: questo fa sì che per l’Italia si registri il numero di laureati più basso in Europa dopo la Romania, leadership tutt’altro che invidiabile. A spiegare tale fenomeno l’assenza di borse di studio e un orientamento universitario non all’altezza.

Esito di questo stato di cose è lo skills gap, ossia lo scarto tra le competenze in possesso dei laureati (quando sussistano in misura almeno bastante rispetto alle richieste occupazionali delle aziende) e le necessità professionali delle aziende: tutto questo procura alle imprese italiane complessità nel rinvenire le migliori competenze sul mercato del lavoro.

All’inadeguatezza di offerta di laureati segue una domanda misurata di professionisti in possesso di laurea. Di più, il titolo di studio è valorizzato, in una prospettiva economica, decisamente meno che in altri Paesi europei.

Tenendo conto della situazione sociogeografica italiana, si capisce come queste problematiche siano più evidenti al Sud e nelle Isole, regioni che devono registrare una forte emigrazione del proprio capitale umano verso Nord, concentrando in poche regioni la popolazione più formata.

In questo modo non vanno che aumentando le già importanti differenze socioeconomiche. A non rendere le cose migliori l’insufficienza di strutture pubbliche e i collegi di merito, preposti all’accoglienza di studenti.

L’università negli anni a venire dovrà fare i conti con la crisi demografica del Paese e perciò fronteggiare un calo che, rimanendo identici i correnti tassi di passaggio dalle scuole superiori, potrebbe arrivare a lambire le 260 mila matricole in meno nel giro di un ventennio.

Le soluzioni contro la crisi demografica nelle università

Le problematiche fin qui riportate preesistono la pandemia del Covid-19 e la consequenziale strategia della didattica a distanza. Sebbene gli effetti non siano ancora immaginabili, occorre agire con tempestività alla radice del problema.

L’obiettivo è scongiurare un’università priva di studenti e sarà quindi essenziale andare a valorizzare le risorse che potranno giungere dal Recovery Plan, per non incrementare il gap con gli altri Paesi europei. Le direzioni possibili sono due: da un lato operare sull’aspetto della domanda. Con il calo della popolazione giovanile, sarà necessario scommettere su un corretto orientamento per accrescere i tassi di passaggio e contrastare la dispersione scuola-università.

Per di più, sarà importante la possibilità di valutare azioni al fine di stimolare le immatricolazioni in due categorie di persone: nella fascia di popolazione più adulta, in un’ottica volta al celebre lifelong learning e nella categoria degli studenti stranieri, che accorreranno da alcune aree del mondo che saranno in boom demografico ‒ come l’Africa – così da ottenere il massimo dal fenomeno dell’internazionalizzazione dell’education.

Al contempo, per spronare e ricevere una cospicua domanda di istruzione, ci si dovrà muovere anche sul versante dell’offerta: un efficace uso del Recovery Plan potrebbe rivelarsi fondamentale. 

Passo necessario sarà l’adeguare le infrastrutture come aule, spazi di studio e per residenzialità. Per gli spazi di studio il ragionamento verterà su strategie didattiche volte all’aumento della capacità produttiva e all’accoglienza di più studenti con gli stessi spazi (per esempio lezioni/esami a rotazione), magari anche ipotizzando una informalizzazione delle università, che potrebbero adibire nel perimetro della loro proposta formativa istituzioni formative non istituzionali (per esempio coding bootcamps online o ed-tech startups).