Lavoro, perché i giovani si dimettono!

Il lavoro, le dimissioni dei più giovani ormai non si contano. La ragione sta nel fatto di come loro abbiano compreso che il lavoro non possa significare tutto nella vita. La ragione fondamentalmente è triplice. Innanzitutto la ripartenza del mercato, poi il desiderio di raggiungere status economici che fossero più appaganti e l’augurio di scoprire altrove una soddisfacente stabilità tra vita professionale e quotidianità.

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Il lavoro, le dimissioni dei più giovani ormai non si contano. La ragione sta nel fatto di come loro abbiano compreso che il lavoro non possa significare tutto nella vita

Recentemente è stata l’Associazione Italiana Direzione Personale (ADPI) a pubblicare alcune statistiche stando alle quali le dimissioni espresse in maniera volontaria fra i giovani nel nostro Paese sfiorerebbero il 60% delle società.

A essere per lo più protagonisti di questa rivoluzioni sono i comparti dell’Informatica e del Digitale (32%), la Produzione (28%) e il Marketing e Commerciale (27%). Coloro che decidono di cambiare lavoro sono rappresentati maggiormente da quell’insieme di persone che si attestano in una fascia di età tra i 26 e i 35 anni.

Siamo di fronte al 70% del campione preso in esame. Lavoratori che si vedono impegnati in misura maggiore nelle imprese dell’Italia settentrionale. 

Giovanni Pizzigoni, in un video caricato sul suo canale Youtube, affronta la questione della volontà dei giovani per il lavoro:

Lavoro e dimissione dei giovani, le ragioni principali

Un trend, quello appena indicato, che ha sorpreso e non poco tutte le società implicate. La ragione fondamentalmente è triplice. Innanzitutto la ripartenza del mercato, poi il desiderio di raggiungere status economici che siano più appaganti e l’augurio di scoprire altrove una soddisfacente stabilità tra vita professionale e quotidianità

Queste indicazioni restituiscono nitidamente l’immenso gap tra generazioni che possono dirsi sempre più lontane, e questo da molteplici prospettive. Un versante è occupato da coloro che sono nati negli anni Sessanta, personalità che tutt’ora guidano imprese, situandosi ai vertici delle gerarchie aziendali. L’altro versante vede i cosiddetti millennial e la celebre Gen Z.

Lavoro, il ruoli nel gioco del mercato

Quando si parla di inserimento sociale a interpretare un ruolo preponderante è senz’altro il lavoro. Il significato di queste parole è semplice. L’occhio con il quale la società osserva le persone e, inevitabilmente, quello con il quale ci guardiamo anche noi stessi, è condizionato non poco dalla parte che rivestiamo nel contesto del mercato

Una dimostrazione risiede in alcuni inconsci atteggiamenti che si assumono. Imbattendosi in un manager, un professore universitario o un primario, scatteranno seduta stante rispetto e timore.

D’altro canto, vigerà, purtroppo e con ogni probabilità, una certa aria di sufficienza all’incontro con professionalità poco qualificate, stimate da alcuni come una scappatoia per alcuni e da altri come ultima spiaggia.

In questo senso si ragioni allora sul quel modus operandi che si sintetizza così: almeno crea posti di lavoro. Una formula che solitamente viene acclarata per fornire attenuanti a occupazioni aventi tipologie contrattuali alle quali in pochi concorrerebbero, impieghi prossimi allo schiavismo.

Il lavoro totalizzante

La cultura del nostro Paese ha sempre avuto una convinzione radicata, ossia quella di concepire il lavoro come un aspetto a dir poco totalizzante della propria vita. Da qui occorre partire per comprendere appieno la relazione tra due orizzonti del mondo che paiono distanti e soprattutto non conciliabili. 

Una visione d’insieme sulla quale si è andato edificando il trionfo imprenditoriale nostrano. Una prospettiva assolutamente assimilata da ogni lavoratore che per decenni ha completamente riservato la propria esistenza alle ragioni del lavoro. 

Un contesto che potrebbe spiegare comportamenti altrimenti poco comprensibili. Del resto ci si dovrebbe domandare come si possano in effetti sopportare orari massacranti, volumi di lavoro che potrebbero impegnare un numero più elevato di dipendenti, privazione totale di pause e in diverse circostanze avversione verso il pensionamento – con annesse problematiche relative a salute fisica e psicologica che ne potrebbero scaturire. 

I protagonisti del lavoro totalizzante

Coloro che assumono questo modus operandi non abbracciano solo l’insieme dei leader e dei dirigenti, il lavoro totalizzante include anche in quanti ricoprono posti subordinati

L’assioma è una concezione del lavoro che proviene direttamente dal XX secolo. Il lavoro pervade completamente l’esistenza del singolo, ogni altra cosa si presenta come un di più, una moda, un vizio.

Le attività extralavoro si presentano come complementari, rientrano nell’insieme degli hobby, degli svaghi e, pertanto, in maniera sostanzialmente automatica, in quello a cui si concede meno importanza. 

La problematica posta in questa definizione del lavoro è l’esito di una specifica cultura e società, prevalentemente in seria crisi. Un contesto rodato che vorrebbe i giovani non allineati a tale disciplina come personaggi incostanti, scriteriati e poco entusiasmati. Una vera e propria accusa. 

Lavoro totalizzante e dimissioni, i nessi

L’analisi delle ragioni che la medesima relazione ADPI certifica come imputabili delle tantissime dimissioni volontarie parla chiaro. Appare lampante l’importanza di due questioni. Da un lato quella economica, dall’altro quella dell’esigenza di una maggiore stabilità tra vita professionale e quotidianità. Due necessità che si scontrano con la prospettiva connaturata nella visione tradizionale del lavoro nel nostro Paese.  

La prima questione, quella relativa all’istanza di retribuzioni consone, figlia della presa di coscienza del fatto che si stia offrendo porzioni della propria esistenza per un salario, pone ai ferri corti il percorso, da molti stimato necessario, della gavetta. Ecco allora spiegata l’accusa di poca pazienza.

Nella visione di tanti imprenditori, i giovani vorrebbero tutto e immediatamente, poco inclini all’attesa e al rispetto dell’itinerario che è spettato a chiunque prima di loro. 

La seconda questione è relativa alla volontà di tutelare la propria quotidianità, il privato. Costruirsi una propria sfera privata cozza con la leadership del lavoro. Un primato mai leso da coloro che hanno visto in esso il solo e unico contesto propenso a legittimare esistenze in altri casi prive di senso. 

Cambiare direzione, la fuga dal lavoro che opprime

Non pare sia più ovvia l’assoluta riverenza al lavoro. Fabbriche e uffici non rappresentano più l’unico contesto in cui dar valore alla propria persona. Malgrado ciò la struttura occupazionale pare sia ancora impantanata ai suoi retaggi, cambiare direzione appare la sola alternativa. 

Un costante andirivieni che ha come fine ultimo riuscire a scovare un luogo che riesca a sintonizzare e armonizzare quelle venature del proprio essere che sono estranee al lavoro nella sua idea comune.

Un processo che ha il dovere di palesarsi sia nella pretesa di un appropriato bilanciamento tra quotidianità e vita professionale, sia nella ricerca di ambienti lavorativi non strutturati, dove i network logistici subentrano alle superate gerarchie societarie.

Il lavoro, occupazione vs identità

Schemi, prassi e attese solitamente lontane che concepiscono una difficoltà di comprensione il più delle volta organica. I punti di vista attraverso i quali le due generazioni chiamate in causa osservano il mondo non si direbbero certamente compatibili tra loro. 

L’intersecarsi e talvolta il congiungersi tra lavoro e identità personale non è più nel dna delle nuove generazioni di lavoratori. Queste persone non sono più disposte a tardare la propria esistenza privata a un “dopo” e qualora vi fossero obbligati, richiedono a gran voce un rimborso che sia adeguato al sacrificio. 

Il tema del lavoro si pone ai nostri giorni come problematica di assoluta importanza. Limitarsi a osservazioni banali, facili archiviazioni o a illazioni vicendevoli non porterebbe i frutti auspicati.

Vi sono chiari problemi di comunicazione, questo conflitto nel rapporto intergenerazionale ne è la prova lapalissiana. Una tematica rovente come quella dell’occupazione non può essere sbrigativamente affrontata.  

Lavoro totalizzante, l’insegnamento della filosofia

Pregnante il pensiero di Bertrand De Jouvenel. Il filosofo, politico ed economista francese, all’interno del suo saggio La teoria pura della politica, ha sostenuto che considerati due personalità A e B, A possa attuare il proprio potere su B solamente quando B glielo consenta, sebbene sia costoso per B ribattere a suon di resistenza alle intimidazioni di A. 

Chi sono gli uomini che fanno la storia? Stando al filosofo quelli che oppongono resistenza e non cedono alle condizioni di quanti in preda alla più folle ostinazione vogliano imprimere un modello dominante, un modello, in questo caso orami obsoleto di organizzazione lavorativa. Oggi i giovani lavoratori sono gli eroi di cui parla De Jouvenel.  

Conclusioni, cambiare la narrazione sui giovani indecisi

Ovviamente non si tratta di screditare il valore del lavoro come esperienza costitutiva di ciascun contesto sociale. Ala realizzazione di questo vi si può prendere parte anche per mezzo dell’occupazione retribuita.  

In questi termini non possiamo ridurre il tutto a una scelta da dentro o fuori, un aut-aut tra il lavoro nella sua veste tradizionale, ormai obsoleta o il non lavoro, vale a dire la disoccupazione. Questa sarebbe la via della sconfitta per tutti. 

Innanzitutto sarebbe necessaria una maggiore empatia, mettersi nei panni altrui, provare a comprendere circostanze lontane dal proprio modo di agire, che non sempre deve essere ritenuto come un libro sacro. Occorre riconsiderare la narrazione sui giovani indecisi. Sicuri che si tratti solo di scelte frutto di immaturità, o il lavoro di oggi non si pone come abbastanza attrattivo?

Occorre pesare bene le retribuzioni, il loro valore in termini economici, con l’aderenza al senso dell’occupazione svolta e alla direzione da imprimere alla propria esistenza privata e quotidiana. Ovviamente sarà sempre necessario ponderare ogni offerta.  

Quello delle nuove generazioni di lavoratori è un vero e proprio cambio radicale di rotta. Un avvenimento storico di duplice lettura.

Da un lato un focolaio di crisi, specie perché vi è chi si ostina a muoversi controcorrente, su posizioni ormai superate. Dall’altro come momento chiave, svolta, occasione per riconsiderare l’itinerario e dare inizio a un nuovo percorso.