Pensioni: aumenti per il 2022, grossi cambiamenti in vista!

Il prossimo anno aumenterà l’importo delle pensioni in pagamento per effetto dell’adeguamento all’inflazione relativa al 2021 e contestualmente vedrà un cambiamento dell’attuale meccanismo di rivalutazione in uso dal 2012, per ritornare al sistema a fasce.

Image

Il prossimo anno aumenterà l’importo delle pensioni in pagamento per effetto dell’adeguamento all’inflazione relativa al 2021 e contestualmente vedrà un cambiamento dell’attuale meccanismo di rivalutazione in uso dal 2012, per ritornare al sistema a fasce.

Il tasso provvisorio che sarà da applicare nel 2022 per poter adeguare gli assegni previdenziali, dovrà tenere conto degli effetti della variazione dei prezzi e del costo della vita, vale a dire l’inflazione che viene stimata all’1,7 per cento.

Poiché verrà reintegrato il meccanismo a fasce, salvo però diverse disposizioni, l’aumento dell’1,7% non sarà però applicato a tutti gli assegni in pagamento.

L’adeguamento andrà a riguardare anche il valore del trattamento minimo di pensione che, attualmente prevede un assegno di 515,58 euro mensili, (diverrà 524,34 euro), mentre l’assegno sociale subirà un piccolo incremento passando dagli attuali 460,28 a 468,10 euro mensili.

Atteso incontro tra Governo e sindacati anche se il governo non sembra intenzionato a far scendere molto la soglia minima dell’età di pensionamento (che con Quota 102 fissa è stata fissata a 64 anni) vincolandola, ad ogni modo, al ricalcolo contributivo dell’assegno. 

Troverebbe, invece, maggiore disponibilità l’idea di favorire le tutele per i giovani che abbiano avuto carriere discontinue.

Tra i numerosi nodi ancora da sciogliere c’è anche quello che riguarda le possibili ricadute negative sulla tassazione della previdenza complementare dallo schema di riforma del Fisco abbozzato dalle commissioni Finanze di Camera e Senato in vista dell’attuazione della delega fiscale. 

Il problema che temono i sindacati è che, nel complesso, la tassazione sui fondi pensione, con questa modalità possa salire rendendo meno appetibile le forme “integrative” che, andando ad affiancare la pensione pubblica, sarebbero, invece, da rilanciare.

Pensioni, l’anno prossimo l’importo cresce fino all’1,7%

Il decreto ministeriale di metà novembre, pubblicato recentemente sulla Gazzetta Ufficiale, ha stabilito che il tasso provvisorio che sarà da applicare nel 2022 per poter adeguare gli assegni previdenziali, dovrà tenere conto degli effetti della variazione dei prezzi e del costo della vita, vale a dire l’inflazione che viene stimata all’1,7 per cento. 

Ovviamente il dato è ancora provvisorio perché è stato calcolato sui valori reali registrati nei primi nove mesi dell’anno attualmente in corso, mentre quelli relativi agli ultimi tre sono stati stimati. 

A inizio del 2023 verrà ad essere applicato il valore definitivo, che potrà essere uguale, maggiore o inferiore con successivo conguaglio nei confronti dei pensionati. 

Il decreto aveva confermato a zero il tasso per il 2020, rispecchiando quello stimato provvisoriamente e quindi non saranno forniti conguagli sulle pensioni che sono state accreditate dal mese di gennaio. 

Nella realtà la variazione dell’indice di riferimento calcolato dall’Istat è stata marginalmente inferiore allo zero ma l’articolo 1 della legge del 2015 prevede che l’adeguamento non possa essere negativo ma deve essere portato a zero (come già accaduto in passato altre volte a partire dal 2016).

Poiché verrà reintegrato il meccanismo a fasce, salvo però diverse disposizioni, l’aumento dell’1,7% non sarà però applicato a tutti gli assegni in pagamento. 

Esempio pratico di calcolo delle pensioni

Quindi, per fare un esempio concreto, sulla base di quanto calcolato da Il Sole 24 Ore un assegno di 2.500 euro lordi mensili con le regole attualmente vigenti vedrebbe una rivalutazione dell’1,309%, ossia il 77% dell’1,7% stimato e arriverebbe a 2.532,73 euro.

Invece, con l’adozione del meccanismo a fasce aumenterebbe a 2.541,76. Nel passaggio da un sistema di calcolo all’altro ci sarebbero cambiamenti per le pensioni fino a quattro volte il valore minimo (attualmente 2.062,32 euro) poiché verrebbe sempre riconosciuto il 100% dell’inflazione, mentre guadagnano qualcosa di più gli assegni che presentano importi maggiori.

L’adeguamento andrà a riguardare anche il valore del trattamento minimo di pensione che, attualmente prevede un assegno di 515,58 euro mensili, (diverrà 524,34 euro), mentre l’assegno sociale subirà un piccolo incremento passando dagli attuali 460,28 a 468,10 euro mensili.

Pensioni: ecco gli altri adeguamenti

La rivalutazione prevista per recepire l’inflazione del 2021 avrà il suo impatto anche sui valori soglia minimi di accesso alle pensioni contributive.

Per quanto riguarda il trattamento di vecchiaia non dovrà essere inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale (corrispondente a 702,16 euro mensili) mentre per quanto riguarda la pensione anticipata non dovrà essere inferiore a 1.310,69 euro mensili.

Le pensioni che, invece, riguardano i superstiti non subiranno tagli se il reddito del percettore, al netto della pensione, risultasse inferiore a 20.449,45 euro. 

Per quanto riguarda i redditi superiori a questo valore, fino a 27.265,93 il taglio sarà del 25 per cento, mentre per i redditi compresi tra 27.265,93 e 34.082,42, il taglio sarà del 40%. Per importi superiori il taglio sarà del 50 per cento.

Pensioni: atteso incontro tra Governo e sindacati 

Intanto, mentre il governo continua a confermare l’intesa raggiunta dalla maggioranza sul fisco in legge di Bilancio, lasciando i sindacati su posizioni di forte contrapposizione, ha incontrato i leader delle principali sigle durante un vertice con il ministro dell’economia Daniele Franco sul fisco

Resta però ancora aperto il capitolo pensioni sul quale i sindacati lamentano di non aver ricevuto risposte, per cui sottolineano come la mobilitazione continui per cui decideranno a breve quali iniziative mettere in campo per discutere con il governo sul futuro della previdenza pubblica in Italia. 

Quindi, il tema delle pensioni, anche se non sarebbe stato direttamente toccato negli ultimi incontri con il Mef, resta di sfondo. Il tavolo tecnico che si dovrebbe tenere circa i possibili ritocchi al capitolo previdenziale della manovra, che è stato preannunciato sin dalle scorse settimane, fin qui non è stato ancora convocato e le parti sociali restano in allerta soprattutto guardando all'avvio del confronto, promesso dal premier sugli interventi da adottare per rendere più flessibile il sistema pensionistico quando si esaurirà, alla fine del prossimo anno, terminerà la misura ponte Quota 102 voluta dal governo.

Un confronto che però, secondo le previsioni circa la pianificazione di Palazzo Chigi, dovrebbe avvenire a dicembre e che avrebbe come orizzonte temporale il Def della prossima primavera. 

I sindacati si attendono un segnale importante circa la possibilità di consentire le uscite anche con 62-63 anni d’età o con almeno 41 di contributi ma puntano anche a introdurre una garanzia pensionistica per i giovani che hanno avuto discontinuità nelle carriere.

Va ricordato però il governo non sembra intenzionato a far scendere molto la soglia minima dell’età di pensionamento (che con Quota 102 fissa è stata fissata a 64 anni) vincolandola, ad ogni modo, al ricalcolo contributivo dell’assegno. 

Troverebbe, invece, maggiore disponibilità l’idea di favorire le tutele per i giovani che abbiano avuto carriere discontinue, rimanendo però all’interno dei margini consentiti dal quadro di finanza pubblica che è stata messa a dura prova dai numerosi interventi per fronteggiare la pandemia. 

Pensioni: possibili ricadute sulla tassazione della previdenza complementare

Tra i numerosi nodi ancora da sciogliere c’è anche quello che riguarda le possibili ricadute negative sulla tassazione della previdenza complementare dallo schema di riforma del Fisco abbozzato dalle commissioni Finanze di Camera e Senato in vista dell’attuazione della delega fiscale. 

Il problema che temono i sindacati è che, nel complesso, la tassazione sui fondi pensione, con questa modalità possa salire rendendo meno appetibile le forme “integrative” che, andando ad affiancare la pensione pubblica, sarebbero, invece, da rilanciare.

La possibile revisione peggiorativa è ipotizzabile sulla base delle conclusioni dell'indagine conoscitiva delle Commissioni Finanze di Camera e Senato sulla riforma dell'Irpef. Uno specifico paragrafo del documento, infatti, è dedicato proprio alla modifica della tassazione sulla previdenza complementare.

Le Commissioni prevederebbero la cancellazione della tassazione delle rendite nella fase di maturazione andando a sostituirla con l'attuale aliquota agevolata nella fase, invece, di prestazione utilizzando le aliquote Irpef ordinarie.

Normale che questa prima indicazione abbia fatto sorgere molte perplessità visto che le aliquote attuali (recentemente riviste), non avrebbero nulla a che vedere con la tassazione dei fondi pensione. L'aliquota che andrebbe a tassare le prestazioni dei fondi pensione sarebbe quella inferiore dell’Irpef (23%), nel contesto post-riforma indicato nel documento. 

Nel concreto, quindi, la tassazione della previdenza complementare verrebbe modificata andando probabilmente ad eliminare l'imposta al 20% sulle rendite nella fase di maturazione e incrementare l'aliquota, probabilmente con la minima dell’Irpef, sulle prestazioni che attualmente è al 15% (ma può scendere gradualmente fino al 9%) in funzione degli anni di contribuzione al fondo.

Questo nuovo modello favorirebbe la formazione di un montante più alto (sgravato della tassazione annuale del 20% sui rendimenti), e andrebbe ad avere una diversa tassazione nella fase delle prestazioni. Obiettivo della riforma è quindi aumentare la massa investita, incrementando le opportunità e quindi, potenzialmente, la redditività. 

Ad oggi in Italia la previdenza integrativa rappresenta un problema tuttora da risolvere visto che non riesce ancora a crescere come dovrebbe, nonostante i timori che circondano un sistema pensionistico pubblico che non potrà che diventare meno generoso nei prossimi anni. Nel 2020 i fondi pensione gestivano risorse pari al 9,8% del Pil in Italia, contro una media Ocse del 63,5%.

Secondo le Commissioni cambiare la modalità tassazione dei fondi potrebbero esserci le condizioni per far ripartire il sistema allineandolo anche dal punto di vista fiscale a quello prevalente in Europa, evitando i rischi di doppie tassazioni e favorendo il decollo delle forme di risparmio previdenziale integrativo europeo.