Non ci sono buone notizie per chi entra oggi nel mondo del lavoro, in un momento in cui nel nostro paese è sempre molto acceso e vivo il dibattito in materia previdenziale con la discussione quasi giornaliera di proposte di riforma sul tema.
Il problema che le pensioni possano per i giovani di domani rappresentare davvero solo un lontano ricordo, sta spingendo infatti le forze politiche dei diversi schieramenti, a diverse proproste in tal senso, ricordiamo tra tutte Quota 100 e i vari tentativi di spostare in avanti l'età pensionabile e questo già a partire dal 2022.
Tuttavia, nonostante questo, i risultati pubblicati in questi giorni dal rapporto dell'Ocse, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, "Pension Glace 2021", mostrano per l'Italia una previsione tutt'altro che rassicurante.
La futura età di pensione sarà pari a 71 anni, questo se si considera un giovane neo-assunto in questo momento e con una carrierra non discontinua.
Una età che pone l'Italia insieme a Danimarca, Estonia e Paesi Bassi, tra le nazioni con la più alta età pensionabile tra tutti i paesi dell'Ocse.
Una situazione non proprio idilliaca che lancia non pochi campanelli d'allarme per il nostro paese, se si fa un confronto con la situazione attuale degli altri paesi europei e si butta un occhio a quella che sarà la possibile evoluzione del nostro sistema previdenziale anche in termini di una sua futura stabilità.
Pensioni: la situazione ad oggi
In effetti quello che si prospetta per il futuro non è altro che una conseguenza di ciò a cui stiamo assistendo oggi nel nostro paese.
Questo è anche una conseguenza diretta del fatto che nel nostro sitema previdenziale, l'età pensionabile e la speranza di vita, di vita sono strettamente collegate da una relazione di diretta proporzionalità, il che vuol dire che tanto più aumenta la speranza di vita, tanto più si sposta in avanti nel tempo il momento di uscita dal mondo del lavoro.
Una situazione simile si verifica solo in altri sette paesi dell'Ocse ed è conseguenza diretta della scelta compiuta dal nostro paese in materia previdenziale nel quale, pur operando un regime a ripartizione, abbiamo un sistema di calcolo della prestazione di tipo contributivo.
Cerchiamo di chiarire meglio i due significati.
Pensioni: regime a ripartizione
In un sistema previdenziale con regime a ripartizione, i contributi che sono versati dai lavoratori attivi vengono immediatamente impiegati per pagare le pensioni dei pensionati correnti e non vengono "riservati" in attesa del momento in cui questi attivi diventino a loro volta pensionati.
Alla base di tutto questo meccanismo c'è l'esistenza di un patto intergenerazionale per cui i lavoratori di oggi pagano le pensioni di oggi, in cambio dell'implicita promessa che i lavoratori di domani pagheranno le loro pensioni di domani.
Ecco il nostro sistema di previdenza pubblico di base, si fonda sul concetto dell'obbligatorietà dei versamenti contributivi.
Accanto al regime, un sistema previdenziale si caratterizza anche per il metodo di calcolo della prestazione, che può essere a ripartizione o a contribuzione.
Il sistema a ripartizione è quello che è stato prevalente nel nostro paese fino alla riforma Dini del 1995 che ha di fatto, modificato il sistema di calcolo da retributivo a contributivo.
Per chi fosse interessato un video tratto dal canale Arcangelo Caiazzo - YouTube, offre spunti interesanti sul tema.
Pensioni: sistema retributivo
In un sistema di calcolo di tipo retributivo, la prestazione al momento del pensionamento dipende non dai contributi versati dal lavoratore, ma dalle retribuzioni percepite dallo stesso nel corso degli ultimi anni della sua carriera lavorativa.
Retribuzioni che ovviamente sono anche quelle più alte perché tengono conto non solo dell'anzianità lavorativa ma anche degli avanzamenti di carriera.
Non essendoci più nessun collegamento tra contributi versati e prestazioni erogate, il sistema a ripartizione ha permesso per tanto tempo il pagamento di pensioni caratterizzate da un tasso di sostituzione molto alto che ha consentito ai pensionati di mantenere un tenore di vita pressochè similare a quelo che avevano durante la vita lavorativa.
Questo, unito al progressivo allungamento della vita media, soprattutto in età avanzate, ha comportato il fatto che si corrispondessero pensioni elevate per periodi di tempo sempre più lunghi, mettendo seriamente in crisi la tenuta del sistema previdenziale.
Ecco perché nel 1995 la riforma Dini, è la prima riforma che ha cambiato la modalità di calcolo della prestazione previdenziale, nell'ottica di un contenimento della spesa e di un collegamento delle pensioni con le dinamiche demografiche.
Pensioni: sistema contributivo
Questa riforma introduce per la prima volta il sistema contributivo, per il quale la pensione a scadenza viene calcolata tenendo conto dei contributi effettivamente versati da ciascun lavoratore.
Proprio per questo però, per ogni lavoratore, viene costituito un conto individuale sul quale vengo accotonati in senso figurato, i contributi che vengono rivalutati annualmente nel tempo fino ad arrivare a formare al momento del pensionamento un montante contributivo.
Questo montante contributivo verrà convertito in rendita previdenziale sulla base di un coefficiente di trasformazione che incorpora le aspettative di vita.
Abbiamo detto che si parla di contributi versati solo in senso figurato su questi conti individuali perché ricordiamo pur essendo un metodo di calcolo contributivo, siamo in un meccanismo a ripartizione, per cui questi contributi vengono immediatamente impiegati per finanziare le pensioni di oggi.
Ad ogni modo il sistema di calcolo contributivo raggiunge un duplice scopo, agganciando la prestazione ai contributi abbassa l'ammontare della prestazione previdenziale, inoltre incorpora nel pagamento delle rendite le aspettative di vita dei pensionati per effetto dei coefficienti di conversione.
Pensioni: riforma Dini e riforma Fornero
La riforma Dini ha modificato il sistema di calcolo della prestazione previdenziale introducendo per la prima volta il sitema di tipo contributivo. Ad ogni modo per mantenere salvi i diritti gia acquistiti dai lavoratori ha previsto un meccanismo di calcolo basato su tre modalità.
Ha mantenuto il regime a ripartizione per tutti quei lavoratori cosiddetti anziani cioè quelli che all'inizio dell'anno 1996, anno di entrata in vigore della legge, avevano già versato almeno diciotto anni di contributi, ha previsto invece il calcolo completamente con il sistema contributivo per i nuovi lavoratori, cioè per tutti i neo assunti a partire da gennaio 1996.
Per il lavoratori che al 1° gennaio 1996 avevano invece meno di 18 anni di contributi, la legge Dini ha stabilito un mertodo di calcolo di tipo misto prevedendo il calcolo retributivo per tutti i contributi già versati fino al 1° gennaio 1996, il contributivo per tutti gli anni successivi.
Su tale modalità di calcolo è intervenuta poi la riforma Fornero che ha segnato il definitivo passaggio al sistema contributivo, perché ha stabilito che dal 1° dicembre 2012, questo diventasse l'unico sistema di calcolo valido per tutti.
Ha predisposto inoltre, la revisione dei coefficienti di conversione con frequenza almeno biennale, come tale questi ancora di più risentono dei cambiamenti delle aspettative di vita.
Ecco perché ritornando a quello che dicevamo sopra, l'Italia è uno dei sette paesi Ocse dove le aspettative di vita sono completamente collegate all'età pensionabile a differenza di altri paesi come Finlandia e Paesi Bassi dove questi cambiamenti, impattano solo per due terzi sull'età pensionabile.
Pensioni: le previsioni Ocse
Alla base della scelta di un sistema contributivo si pone dunque una duplice necessità.
Agganciare le prestazione ai contributi effettivamente versati, in primo luogo consente di contenere la spesa per pensioni, in secondo luogo permette la formazione di prestazioni previdenziali di importo congruo solo in tempi piuttosto lunghi.
Questo impedisce che le persone siano invogliate e motivate a lasciare il proprio posto di lavoro in età ancora giovani, incentivando quindi l'occupazione soprattutto in relazione alle età più adulte, cosa di vitale importanza in un paese con la nostra particolare dinamica demografica.
Proprio per questo seppure abbastanza funeste, non meravigliano le previsioni dell'Ocse, che prevedono che in Italia, un giovane che inizi oggi a lavorare non possa andare in pensione prima di aver compiuto i 71 anni di età.
Un'età pensionabile che insieme a quella dei Paesi Bassi e del'Estonia pari a 71 anni, e della Danimarca pari a 74 anni, ci pone direttamente al vertice della lista dei paesi Ocse, dove l'età media è invece di 66 anni.
Pensioni: i meccanismi di uscita anticipata
Questa è la situazione teorica che si prospetta nel futuro se non che, la situazione attuale in Italia, si caratterizza per non poche distorsioni che fanno ribaltare completamente il discorso.
A fronte di un dato medio Ocse di 63,1 anni, oggi la nostra età media pensionabile per tutti questi meccanismi di uscita anticipata, si abbassa infatti a 61,8 anni.
Si fa riferimento a tutte quelle misure e opzioni emanate in Italia negli ultimi anni che hanno in un certo senso scardinato il legame tra speranza di vita ed età pensionabile, come nel caso dell'opzione donna o delle misure per le aziende in crisi o dell'ultima quota 100, che hanno progressivamente ridotto e anticipato il momento di uscita dal lavoro.
In effetti lo stesso rapporto dell'Ocse fa riferimento a questa anomalia tutta italiana considerando i 38 anni di contributi necessari secondo quota 100 per poter uscire dal mondo del lavoro.
Questi 38 anni si sono venuti completamente a sostituire ai precedenti 42,8 anni richiesti per gli uomini (quasi 5 in più) e ai 41,8 anni richiesti per le donne (quasi 3 in più per le donne).
Situazione che ci colloca in una situazione peggiore anche della Spagna che è l'unica nazione insieme all'Italia, dove esiste un meccanismo simile di uscita anticipata dal mondo del lavoro, dove gli anni di contributi richiesti sono 40.
Uscita anticipata che poi si ripercuote anche sul periodo di pagamento della rendita previdenziale, perchè allo stato attuale delle cose, con la particolare dinamica demografica che caratterizza il nostro paese, gli uomini precepiranno questa rendita per un periodo di almeno 22 anni che passano a 26 se ci riferiamo alle donne, contro una media Ocse di 19,5 e 23,8 anni, rispettivamente.
Pensioni: gender gap e impatto sul Pil
Con riferimento poi all'età di uscita attuale dal mondo del lavoro, è stimato che gli uomini in Italia vadano in pensione a 62,3 anni, mentre le donne vadano in pensione con un'età media di 61,3 anni e tuttavia hanno un assegno del 32% più basso rispetto a quello di un uomo.
Con questo risultato l'Italia è in vetta alla lista dei paesi con disparità di genere, a fronte di una media Ocse del 25%.
Ad ogni modo tutti questi meccanismi di uscite anticipate sono stati causa dell'esplosione della spesa pubblica per pensioni in Italia.
Nel 2019 questa, con un valore pari al 15,4% del Pil, è risultata la seconda più alta nei paesi Ocse e si mostra in aumento di 2,2 punti dal 2020 sempre secondo le stime dell'Ocse.
Ma anche le stime per il futuro non ci danno risultati migliori, perchè nel 2035 in Italia la spesa per pensioni sarà quasi il 18% del Pil, contro una media Ocse del 10%.
Pensioni e invecchiamento
In tutto questo scenario già abbastanza complesso si innesta anche un'altra importante evidenza, l'Italia è un paese che invecchia, invecchia a tal punto che solo Giappone e Corea avranno un peggiore rapporto tra numero di anziani su popolazione attiva.
In effetti, per l'Italia si stima che ci saranno nel 2050 per ogni 100 persone di età compresa tra i 20 e i 64 anni, considerata popolazione in età lavorativa, 74 persone con più di 65 anni considerati invece anziani, valore la cui portata si capisce maggiormante se si considera che oggi si attesta a 39,5 unità.
I dati futuri poi non lasciano comunque spazi a margini di miglioramento tanto che si stima che negli anni compresi tra il 2020 e il 2060, gli attivi in Italia diminuiranno ancora del 31%, a fronte di un dato medio Ocse del 10%, per questo sarà sempre più necessario trovare dei meccanismi che comunque spingano gli individui soprattutto in età più adulta, a rimanere al lavoro.
In effetti è vero che nell'ultimo ventennio proprio l'aumento di questa occupazione nelle età più adulte è stato lo strumento che più ha bilanciato il forte peso dell'incremento demografico.
Se da un lato è importante quindi che questa occupazione cresca anche per il futuro, vero è che il sistema non riesce a bilanciare tutte le disparità esistenti tra i diversi pensionati.
A soffrirne maggiormente saranno i lavoratori autonomi e i lavoratori con carriere discontinue, specie se donne.
Nello specifico i dati ci dimostrano che in Italia, a parità di versamenti contributivi un lavoratore autonomo avrà al momento del pensionamento, una pensione più bassa del 30% rispetto ad un lavoratore dipendente, quando invece questo gap nell'area Ocse sarà del 25%.
Mentre una donna, nell'ipotesi venisse assunta oggi ma con un percorso lavorativo di tipo discontinuo catatterizzato da almeno dieci anni di disoccupazione, si ritroverebbe a prendere una pensione più bassa del 27% rispetto ad una lavoratrice che non abbia avuto alcuna ionterruzione di carriera, a fronte di una media Ocse del 22%.