E' più che mai in questi giorni acceso il dibattito sulla riforma delle pensioni, quota 100, quota 102, quota 104, uscita anticipata, il ritorno alla legge Fornero, eppure in tutto questo bailamme di discussioni rischia di passare inascoltato un campanello d'allarme più significativo e sicuramente non indifferente alle tasche di tutti gli italiani, quelli che sono pensionati oggi e coloro che lo diventeranno domani. Pil ,pandemia e pensioni, un terzetto di elementi che singolarmente presi già sono preoccupanti, insieme risultano addirittura esplosivi.
Vediamo il perché proprio in questo articolo cercando di capire come le sorti di queste tre componenti siano intrinsecamente legate e come di fatto, la pandemia abbia innescato la relazione di diretta proporzionalità tra Pil e pensioni. Che cosa vuol dire diretta proporzionalità tra queste due grandezze? Beh lo traduciamo in termini semplicissimi.
Pandemia= Diminuzione del Pil = Diminuzione delle Pensioni
Questo il concetto generale, adesso vediamo cosa significa più nel dettaglio e perché la dinamica di Pil e pensioni ad un certo punto è diventata così strettamente correlata.
Pil, pensioni e la riforma Dini del 1995.
Per comprendere come tutto ebbe inizio, bisogna tornare indietro alla legge n. 335 del 1995 meglio conosciuta come la Riforma Dini che è stata senza dubbio la legge che ha più inciso sul sistema previdenziale italiano definendone l'attuale connotazione, perché è con questa riforma che viene definitivamente cambiata la modalità di calcolo delle pensioni all'interno del nostro paese.
Nello specifico, tale legge rappresentava un po' la linea spartiacque, la divisione tra il prima e il dopo, il passaggio dal sistema retributivo fino ad ora impiegato per il calcolo delle pensioni, al sistema contributivo. Più in dettaglio tale riforma prevedeva di fatto, un meccanismo di transizione di tipo graduale stabilendo tre meccanismi di calcolo.
Ai lavoratori anziani, ovvero coloro che al 1 gennaio 1996 avevano già accumulato 18 anni di contributi si continuava a calcolare la pensione totalmente con il metodo retributivo, ai lavoratori cosiddetti giovani, ovvero assunti dopo il 1 gennaio 1996 la pensione veniva calcolata integralmente con il metodo contributivo, infine, ai i lavoratori che a tale data avevano meno di 18 anni di contributi già versati si procedeva al calcolo con il sistema misto, retributivo per tutti i contributi accumulati fino al 1 gennaio 1996, contributivo per tutti quelli versati successivamente a tale data.
Bisogna aggiungere che sebbene tale riforma modificasse la modalità di calcolo della pensione, nulla cambiava circa il sitema della previdenza obbligatoria che rimaneva pertanto a ripartizione e questa costituisce una connotazione estremamente importante perché continuava e continua a sussistere all'interno del nostro sistema previdenziale, quel patto intergenerazionale sul quale da sempre ha fondato il proprio equilibrio.
Pil, pensioni e metodi di calcolo. Dal retributivo al contributivo, il patto intergenerazionale ed i contributi figurativi. Siete curiosi di capirne un po' di più?
Che vuol dire tutto questo e come si inserisce tale aspetto nella nuova modalità di calcolo? Lo spieghiamo immediatamente. Nel calcolo retributivo come dice la parola stessa, il calcolo delle pensioni avviene sulla base delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso degli ultimi anni della propria vita lavorativa, che sono normalmente anche quelle più elevate perché influenzate giustamente dagli avanzamenti di carriera e dall'anzianità lavorativa.
Tutte queste retribuzioni vengono periodicamente rivalutate sulla base del tasso d'inflazione e poi il tutto viene convertito in rendita al momento del pensionamento del lavoratore stesso. Tale sistema ha consentito nel tempo di avere un tasso di sostituzione (inteso come rapporto tra ultima retribuzione percepita e importo della pensione) mai inferiore al 70%, il che equivale a dire pensioni sufficientemente "ricche" per i nostri pensionati.
Il sistema contributivo prevede invece che l'importo della pensione che il lavoratore percepirà al momento del pensionamento, sia strettamente legato al totale dei contributi versati durante l'intera vita lavorativa. I contributi di ogni lavoratore confluiscono in un conto pensionistico individuale e vengono rivalutati annualmente dall'Inps.
Tuttavia si dice che i contributi sono solo virtualmente rivalutati e accantonati, in altri termini i contributi sono assegnati solo in senso figurato a ciascun lavoratore perché di fatto, questi vengono impiegati immediatamente per pagare le pensioni degli attuali pensionati, in cambio dell'implicita promessa che saranno poi i giovani lavoratori di domani a finanziare materialmente le loro pensioni. Questo è proprio il principio che è alla base del regime finanziario della ripartizione.
Abbiamo detto che i contributi versati in questi conti individuali sono opportunamente rivalutati, ma quale tasso di rivalutazione è stato scelto? Avrebbe potuto essere tranquillamente scelto il tasso di inflazione come già accadeva per le retribuzioni nel sistema retributivo in modo che anche le contribuzioni sarebbero state indicizzate al costo della vita, tuttavia fu preferita un'altra soluzione. Si stabilì di rivalutare i contributi agganciandoli all'andamento del Pil quindi facendo in modo che il valore degli stessi rispecchiasse in pieno l'andamento dell'economia italiana.
Pil e calcolo del montante contributivo. Come sono collegate le due grandezze?
La Riforma Dini stabilì pertanto che i contributi che confluivano nei conti individuali di ciascun lavoratore, venissero periodicamente rivalutati sulla base della media del Pil dei cinque anni precedenti, questo per attutire eventuali oscillazioni al rialzo o al ribasso. Più in dettaglio la legge prevede che l'importo dell'assegno venga calcolato sulla base di un montante contributivo dato dal totale dei contributi versati che sono stati rivalutati ogni anno in base alla media quinquennale del Pil fino ai due anni precedenti il pensionamento, cui si aggiungono i contributi degli ultimi due anni questi senza rivalutazione.
E' ben evidente dunque lo stretto legame che c'è tra pensione e Pil perché più è alto il tasso di crescita del Pil tanto più alta sarà la rivalutazione periodica dei contributi e dunque l'importo della rendita pensionistica al momento della quiescenza.
Ma c'è un'altra grandezza che entra in gioco nel calcolo della rata di pensione, perché una volta che viene calcolato il montante contributivo lo stesso viene convertito in rendita utilizzando un coefficiente di trasformazione.
Pil, montante contributivo, coefficiente di trasformazione e legge Fornero. Un bel mix che andiamo a raccontare.
Non possiamo però proseguire senza menzionare la Riforma Fornero che è intervenuta sia sulla modalità di calcolo delle pensioni che su quella dei coefficienti di trasformazione incidendo notevolmente, e purtroppo dobbiamo dire in senso diminutivo, sull'ammontare delle pensioni.
In effetti la Riforma Fornero ha di fatto accelerato il meccanismo di transizione che prevedeva la precedente legge Dini stabilendo per tutti, il passaggio al sistema contributivo a partire dal 2012, è intervenuta inoltre anche sul calcolo dei coefficienti di trasformazione stabilendo due cose fondamentali: coefficienti di trasformazioni crescenti rispetto all'età di pensionamento stabilita variabile dai 57 ai 71 anni, e al tempo stesso coefficienti di trasformazione anch'essi adeguati in base al valore del Pil.
Alla luce di quanto detto l'andamento del Pil influenza pesantemente le due componenti principali del calcolo della prestazione previdenziale: il montante contributivo e il coefficiente di trasformazione con l'evidente conseguenza che se si hanno periodi di crisi economica all'interno di un paese, il montante contributivo si rivaluta di meno e i coefficienti di trasformazione si abbassano. Risultato finale: le pensioni diminuiscono.
Pil, pensioni e pandemia, un trio esplosivo.
E siamo arrivati ai nostri giorni. Gli effetti della crisi economica prodotti dalla pandemia nel 2020 sono sotto gli occhi di tutti, la nostra economia ne è uscita con le ossa ammaccate, adesso assistiamo ai primi tiepidi segnali di ripresa ma la bomba è esplosa con tutta la sua deflagrazione e adesso facciamo la conta dei danni.
Il tasso di variazione medio annuo del Pil nei cinque anni precedenti il 2021 (quinquennio 2015-2020) è stato pari a -0,000215 pertanto il coefficiente di rivalutazione si è attestato al valore dello 0,999785 e dunque inferiore ad 1. Per la seconda volta nella storia da quando la riforma Dini è entrata in vigore, il montante contributivo subisce una svalutazione per effetto dell'andamento del Pil che solo nel 2020 a seguito del Covid è crollato dell'8,9% e che come abbiamo visto ha portato queste conseguenze così importanti riguardo la rivalutazione delle pensioni.
Ma abbiamo detto che è la seconda volta che succede. In effetti, una situazione similare accadde al termine del 2014 quando il tasso di rivalutazione del montante contributivo risultò negativo. Esattamente il primo anno di entrata in vigore della nuova legge di riforma, quindi, il governo si ritrovava ad affrontare il problema della svalutazione delle pensioni.
Al tempo da più parti, fu chiesto al governo di intervenire e fu varato il decreto n.65 del 2015 meglio conosciuto con il nome di clausola di salvaguardia. In tale decreto si stabiliva che il coefficiente di rivalutazione non potesse essere mai inferiore a 1 fatta salva la possibilità di poter recuperare nelle realizzazioni successive. Tuttavia il decreto stabilì ulteriormente nel comma1-bis dello stesso che, all'atto della prima applicazione, non si desse luogo al recupero sulle rivalutazioni successive, come tale i pensionati vennero aiutati.
Per effetto di tale clausola quindi l'attuale coefficiente 0,999785 verrà portato ad un valore neutro di uno e la mancata svalutazione (-0.000215) sarà recuperata sulla prima rivalutazione positiva utile.
Pil e pensioni: cosa c'è da aspettarsi per il futuro?
Quale sarà l'effetto di tutto questo sulle pensioni future? Grazie all'applicazione di questo meccanismo, le pensioni che saranno erogate dal 1° gennaio 2022 non subiranno nessuna svalutazione ma, a meno di interventi correttivi da parte del governo, la mancata svalutazione del montante contributivo sarà integralmente recuperata sulla prima rivalutazione utile.
Quindi ben comprensibile è lo stato di allerta di ogni lavoratore chiaramente preoccupato di quanto il crollo del Pil del 2020 possa riflettersi sull'ammontare dell'assegno pensionistico perché, se è vero la clausola di salvaguardia ha sterilizzato l'effetto sulle nuove pensioni del 2022, totale incertezza c'è in relazione al coefficiente per l'anno successivo che sarà comunicato solo alla fine 2022 e che dovrebbe tener conto del recupero della svalutazione dello 0,0125% che ad oggi è stato congelato.
Quindi a meno di un intervento legislativo che disponga in tal senso, saranno le pensioni erogate a partire dal 1° gennaio 2023 a risentire degli effetti della svalutazione. Gli esperti stimano che la perdita di rivalutazione del montante sulla sola parte contributiva, potrebbe essere pari circa al 2,5% che, confrontata con una pensione di vecchiaia erogata nel 1996 con 15 anni contributivi, equivarrebbe ad una perdita potenziale dell'1,6% solo per questo anno.
Pil e pensioni, dal 2022 più basse per tutti.
Tuttavia, indipendentemente dalla svalutazione che agisce sulla parte contributiva del calcolo della pensione, il crollo del Pil toccherà inevitabilmente anche la seconda componente cardine per il calcolo della pensione, ovvero il coefficiente di trasformazione e, se è vero che il primo impatto con un opportuno intervento legislativo si potrebbe sterilizzare con riferimento alle pensioni da erogare per uno specifico anno (2023), diverso è il discorso per questo secondo aspetto che invece produrrà un effetto generalizzato per tutti i pensionati di qualunque età e per qualunque anno.
Il che fa presagire purtroppo solo una brutta notizia, che dal 2022 le pensioni saranno più basse è vero, ma più basse per tutti. Non solo questo effetto sarà già evidente nel 2021, ma mostrerà tutto il suo impatto a partire da prossimo anno. Ricordiamo infatti, che proprio per effetto della riforma Fornero, i coefficienti di trasformazione sono soggetti ad una revisione biennale, e questa è prevista proprio in relazione al biennio 2022-2023 inglobando in pieno gli effetti del calo del Pil del 2020.
Tutto questo a meno che non ci sia un intervento del governo che decida di intervenire in tal senso congelando appunto tutte le variazioni. Non ci resta che stare ad aspettare anche alla luce dell'attuale dibattito in materia previdenziale e cercare di capire quali saranno gli orientamenti in tal senso per il prossimo futuro.