Riforma pensioni: l'uscita a 62 anni è una mazzata!

Riforma pensioni: come si andrà in pensione nel 2021? Tra scadenza quota 100, dubbi e proposte, c'è una sola certezza: l'uscita a 62 anni non conviene assolutamente. Vi spieghiamo perchè.

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Sono giorni di attesa, tutti vogliono sapere cosa succederà dopo la scadenza della Quota 100.  I dubbi sono tanti l’unica certezza è che non si potrà più andare in pensione a 62 anni con 38 di contributi versati, il sistema (voluto dalla Lega) è troppo costoso e chiuderà i battenti alla fine dei tre anni previsti. 

Intanto il Governo sta cercando un sistema che permetta ai lavoratori di andare in pensione prima, anche se appare chiaro che per farlo i lavoratori dovranno accettare una penalizzazione sull’assegno previdenziale spettante.

Intanto il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico propone un pensionamento a due quote: la prima, all’età di 62-63 anni, con la sola componente contributiva del trattamento pensionistico e l’altra, a 67 anni, con la pensione piena comprensiva anche della parte retributiva. 

In poche parole l’ipotesi avanzata da Tridico è quella di dividere la pensione in due quote, una subito e una al compimento dei 67 anni. Anticipare la pensione quindi, secondo la proposta del Presidente INPS, comporterebbe sì una penalizzazione che però si esaurirebbe al compimento dell’età di accesso alla pensione di vecchiaia.

Alla proposta di Tridico risuona forte il no dei sindacati . Per Cgil Cisl e Uil, infatti, così si rischiano assegni troppo bassi. I sindacati non si limitano alle parole ma rilanciano una controproposta che consiste in età pensionabile che parte da 62 anni o, in alternativa, con 41 anni di contributi versati, a prescindere dall'età anagrafica. 

Arrivati a questo punto la domanda da porsi è: tra le due proposte quanto ci rimettono i poveri pensionati? Di seguito analizzeremo la proposta di Tridico e quella dei sindacati e, con qualche esempio pratico cercheremo di capire quanto sia poco conveniente un pensionamento a 62 anni, rispetto ai 67.

Riforma pensioni: la proposta di Tridico

L’ipotesi che avanza Pasquale Tridico, presidente dell’INPS, è quella di dividere la pensione in due quote, una quota concessa al compimento dei 62 o 63 anni calcolata solo sui contributi che ricadono nel sistema contributivo e una seconda quota da ricevere solo al compimento dei 67 anni che aggiunge alla prima quota la pensione derivante dalla quota retributiva. Secondo Tridico questa proposta comporta una penalizzazione che però si esaurirsce al compimento dell’età di accesso alla pensione di vecchiaia, ovvero i 67 anni.

Per Tridico l’uscita anticipata, quindi, dovrebbe essere legata ad un ricalcolo interamente contributivo della pensione per garantire l’equilibrio delle casse statali, introducendo, al tempo stesso, anche agevolazioni per chi fa lavori usuranti.

Tra le proposte avanzate dal presidente dell’INPS anche quella di intervenire sul meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita Istat tenendo conto che l’aspettativa di vita è diversa in base al lavoro svolto.

Il presidente dell’Inps, inoltre, propone anche una sorta di pensionamento sperimentale soprattutto in un periodo post pandemico per quei lavoratori che rientrano tra “i fragili”, una platea di beneficiari non particolarmente estesa il cui pensionamento anticipato avrebbe costi e impatti minori rispetto all’attuale quota 100.

Riforma pensioni: la proposta dei sindacati

La critica più dura alla proposta di Tridico è arrivata dal segretario confederale Uil, Domenico Proietti, definendola estemporanea e fuori da ogni realtà, un asorta di esercizio di fantasia sulle spalle dei futuri pensionati e sarebbe l‘ennesima ingiustizia inflitta ai lavoratori italiani.

Più morbido il segretario confederale Cgil, Roberto Ghiselli.

“Non siamo d’accordo con l’introduzione di nessun sistema di penalizzazione nel calcolo dell’importo della pensione. Tanto meno, per questo, ci piace l’ipotesi di spacchettare in due l’assegno come propone il presidente Inps Tridico. Ma apprezziamo che finalmente ci siano più soggetti a immaginare una flessibilità nel pensionamento che parta da 62 anni “,

I sindacati hanno rilanciato con una proposta di flessibilità in uscita dai 62 anni di età o con 41 anni di contributi a prescindere dall'età, riconoscendo la diversa gravosità dei lavori, una pensione di garanzia per i giovani e la proroga di opzione donna.

Quindi anche la proposta dei sindacati ruota intorno a doppio canale:

  • da un lato un’uscita flessibile dal lavoro a partire dai 62 anni di età con un abbassamento di 5 anni della soglia anagrafica attualmente richiesta per il raggiungimento della pensione di vecchiaia;
  • dall’altro, un meccanismo di accesso alla pensione, a prescindere dall’età, con il versamento di almeno 41 anni di contributi.

I sindacati propongono inoltre di prolungare e ampliare il raggio d’azione dell’Ape sociale che ha la finalità di accompagnare in anticipo soggetti in possesso di determinati requisiti verso la pensione e si estrinseca in un'indennità che l'Inps, nel rispetto dei limiti di spesa fissati, eroga a coloro che abbiano almeno 63 anni di età, non siano titolari di pensione diretta in Italia o all'estero e si trovino nelle condizioni determinate dalla legge.

La corresponsione dell'indennità si protrae sino a quando il beneficiario non raggiunge l'età per accedere alla pensione di vecchiaia o a un trattamento pensionistico conseguito in anticipo ai sensi dell'articolo 24 del decreto legge numero 201/2011.

Altra proposta dei sindacati è di rafforzare i contratti d’espansione, uno strumento volto a favorire le riconversioni aziendali e ristrutturazioni degli organici. Lo strumento è stato riconfermato per il 2021, dopo un avvio sperimentale, dalla legge di Bilancio 2021 (legge n. 178 del 30 dicembre 2020), nell’ambito delle misure finalizzate al rilancio delle imprese.

Il “contratto di espansione” consente ai lavoratori che si trovano a non più di 60 mesi dalla prima decorrenza utile della pensione di vecchiaia, e che abbiano maturato il requisito minimo contributivo, la possibilità di accedere a un’indennità mensile commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Il Governo difficilmente accetterà la proposta delle tre confederazioni (Cgil, Cisl e Uil), per un semplice fatto: è troppo costosa. Ma quello che è da tenere presente è che un pensionamento a 62 anni, rispetto ai 67 anni non è conveniente perchè, sicuramente la pensione presa a 62 anni è sicuramente più bassa di quella che spetterebbe  al compimento dei 67 anni. Vediamo perchè.

Pensione a 67anni: 3 punti a favore

Primo punto a favore dell’andare in pensione a 67 anni è abbastanza banale. L’ assegno sarà sicuramente più alto perchè, rispetto ai 62 anni, vengono versati 5 anni in più di contributi. 

Ma il calcolo non si riduce solo a questo aspetto. Infatti, anche a parità di contributi, smettendo di lavorare a 62 anni, la pensione a 67 anni sarebbe più alta per effetto del coefficiente di trasformazione al montante contributivo.

Ed è  questo il secondo punto favore del pensionamento a 67 anni. I coefficienti di trasformazione sono valori, utilizzati nel sistema contributivo, che traducono in pensione annua il montante contributivo accumulato dal lavoratore nel corso della sua vita lavorativa.

Si tratta di parametri variabili a seconda dell'età anagrafica alla quale il lavoratore consegue la prestazione previdenziale. In particolare essi risultano tanto piu' elevati quanto maggiore è l'età del lavoratore. Il principio, infatti, alla base del sistema contributivo è che piu' tardi si andrà in pensione maggiore sarà l'importo del trattamento che potrà essere ottenuto perchè minore sarà la durata della vita del beneficiario.

I coefficienti, a seguito della Riforma Fornero del 2011, vengono aggiornati in corrispondenza dello scatto degli adeguamenti alla speranza di vita e si riducono progressivamente in misura tale da compensare l'effetto "positivo" che la speranza di vita produrrebbe sull'assegno, in termini di aumento del montante contributivo dovuto alla prosecuzione del versamento della contribuzione. In forza di tale previsione legislativa i coefficienti sono stati rivisti il 1° gennaio 2013, il 1° gennaio 2016; il 1° gennaio 2019 e il 1° gennaio 2021 con efficacia sulle pensioni aventi decorrenza rispettivamente nel triennio 2013-2015; 2016-2018; 2019-2020; 2021-2022.

I coefficienti di trasformazione applicati al montante contributivo che trasformano, di fatto, i contributi versati in pensione, infatti, non crescono in modo costante ma premiano chi ritarda: a 62 anni il coefficiente di trasformazione è del 4,770% ,mentre a 67 anni è del 5,575%.

Diamo i numeri... per capire meglio!

Immaginiamo un lavoratore che ha iniziato a lavorare dal 2000 e che ha smesso nel 2020, versando contributi per 20 anni. Supponiamo un versamento dei contributi pari a 7mila euro annui.  In 20 anni il lavoratore ha accumulato un montante contributivo pari a 140mila euro.

Andando in pensione a 62 anni l’importo pensionistico annuo spettante sarebbe pari a 6.678 euro (140.000 x 4,770%= 6.678 €) circa 556,5 euro al mese.Se invece conseguisse la pensione a 67 anni l’importo pensionistico annuo spettante sarebbe pari a 7.805 euro (140.000 x 5,575%= 7.805 €) circa 650,4 euro al mese.

Praticamente guadagna 100 euro al mese solo aspettando 5 anni per andare in pensione.  Ma non finisce qui, e passiamo al terzo punto a favore del pensionamento a 67 anni.

Continuando lavorare per altri 5 anni il lavoratore versa, di conseguenza, 5 anni in più di contributi che nel nostro esempio sono 7mila euro annui. Quindi a 67 anni il montante contributivo è pari a 175mila euro, applicando il corrispondente coefficiente di trasformazione di 5,575%, l’importo pensionistico annuo sale a 9.756,25 euro ( 175.000 x 5,575% = 9.756,25 euro), ossia 813,02 euro al mese.

Riepilogando andare in pensione a 62 anni comporta una perdita mensile di ben 250 euro circa al mese.Come dare torto ai sindacati quando risulta così evidente che andare in pensione a 62 anni non conviene assolutamente.