Fine pandemia, fine smart working? Le prospettive aziendali!

Con la fine della pandemia molte aziende ritornano a lavorare in presenza, abbandonando così la pratica del lavoro da remoto. Questa sarà allora la fine dello smart working? Il cosiddetto lavoro agile ha una serie di punti di forza, ma anche diverse problematiche. Affinché lo smart working possa svilupparsi anche in futuro e diventare non una soluzione di emergenza, ma un vero e proprio asset strategico, le aziende dovranno prestare attenzione tanto all'aspetto tecnologico, quanto a quello culturale.

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Nell’era digitale lo smart working è andato ad affermarsi sempre più come un diverso metodo di amministrazione e gestione aziendale, basato su una elevata flessibilità e sulla personalizzazione del tempo e dello spazio lavorativo.

Come precisa puntualmente l'Osservatorio del Politecnico di Milano, da un lato al lavoratore viene concesso un’alto livello di autonomia, dall’altro gli si richiede una maggiore responsabilizzazione a livello di risultati.  

Durante la pandemia iniziata a marzo 2020, invece, lo smart working si è sviluppato su binari leggermente diversi. Le aziende si sono trovate ad operare in una situazione di grande confusione, con le direttive emanate dai governi che spesso si sono dimostrate poco chiare o addirittura contraddittorie. 

In questo contesto lavorare da casa è servito per rispondere nell’immediato alle esigenze di distanziamento sociale, ed è stato dunque sfruttato più come soluzione di emergenza che non come vero e proprio asset strategico

In ogni caso, anche se si è trattato più di un semplice lavoro “da remoto” che non propriamente di un lavoro “smart”, gli ultimi mesi sono stati sfruttati per svolgere varie analisi allo scopo di rendersi conto delle possibili prospettive aziendali in merito al futuro dello smart working nel mondo post-Covid. Tra queste, ad esempio, anche un importante meeting organizzato dalla Banca Mondiale, con esperti internazionali che hanno ipotizzato soluzioni molto interessanti su questo tema.

Vediamo dunque in primo luogo come il lavoro da remoto si è sviluppato durante il periodo dell'emergenza sanitaria, per poi andare successivamente a comprendere quali caratteristiche sono necessarie alle aziende per realizzare uno smart working di qualità. Scopriremo che si parla una vera rivoluzione culturale

Il breve video seguente dello psicologo Luca Mazzucchelli è una perfetta introduzione agli argomenti che stiamo per affrontare: è stato rilasciato sul suo canale YouTube dopo il primo lockdown dello scorso anno, ma le tematiche affrontate sono oggi più interessanti ed attuali che mai.

Smart working e pandemia, una crescita esponenziale!

Se è vero che quella innescata dalla pandemia è stata probabilmente la crisi peggiore degli ultimi decenni, sotto il profilo umano, politico, sanitario, e naturalmente anche da quello lavorativo, è vero anche che questa stessa crisi ha rappresentato da un punto di vista aziendale una sorta di punto di svolta, quasi un’opportunità. 

Questa opportunità è costituita proprio dall’uso massiccio dello smart working, che naturalmente non rappresenta assolutamente una novità (smart working sì o smart working no, è un dibattito su cui gli addetti ai lavori si confrontano ormai da anni), ma che mai prima d’ora aveva avuto un utilizzo così esteso, soprattutto nel nostro paese.

Un rapporto di AssoLombarda dello scorso aprile indica che prima del Covid (2019) l’incidenza dei lavoratori in smart working in Italia sul totale degli occupati era di meno del 5%, il dato peggiore in Europa (in Svezia, per esempio, era del 37%). Tuttavia già soltanto dopo il primo lockdown (marzo/aprile 2020) questo numero è cresciuto a dismisura, arrivando a sfiorare il 40%, sostanzialmente in linea con la media europea.

Uno smart working di qualità! 

Oltre all’aspetto legato alla quantità, poi, c’è ovviamente da analizzare come lo smart working sia stato gestito da un punto di vista qualitativo. Dicevamo infatti che è stato considerato principalmente come una soluzione emergenziale e temporanea, e non come una strategia volta ad ottenere dei vantaggi sul lungo periodo. Infatti solo il 37% delle aziende, durante il lockdown, ha introdotto delle indicazioni specifiche riguardo alle tempistiche degli orari di lavoro, mentre la maggior parte di esse non si è preoccupata di gestire questa particolare fattispecie. 

A proposito di gestione, la pianificazione aziendale e la coordinazione del personale hanno rappresentato alcune tra le problematiche più comuni. In generale, come vedremo anche più avanti, tutto l’ambito legato alla comunicazione riveste un’importanza fondamentale quando i dipendenti non lavorano in presenza.

Invece un elemento molto importante e positivo è rappresentato dal notevole aumento della produttività: lo ha riscontrato e sottolineato, ad esempio, anche il Presidente dell’INPS Pasquale Tridico, il quale stima che, con il lavoro da remoto, la produttività dell’Istituto Previdenziale sia aumentata del 12%.

E non è un caso isolato. Tutte le principali analisi svolte su questo tema concordano che la resa dei lavoratori in regime di smart working aumenti in maniera netta, sia grazie alla maggiore flessibilità dei dipendenti (oraria e nobn solo), sia per la necessità da parte del management di mettere da parte i fronzoli per concentrarsi sulle azioni davvero prioritarie. 

Fine smart working, l’esempio della Pubblica Amministrazione

Dopo avere visto alcuni dei dati statistici legati all’utilizzo dello smart working durante la pandemia, veniamo ora alla più stretta attualità, che almeno in Italia coincide con un graduale ritorno alle condizioni pre-Covid, anche per mezzo dell’obbligo del Green Pass per i lavoratori a partire dal 15 ottobre 2021. È proprio questa data che segna la fine del lavoro da casa ed il ripristino di quello in presenza per i dipendenti della Pubblica Amministrazione

Tale scelta mostra che il concetto portato avanti dal ministro Renato Brunetta è quello già descritto in precedenza, in cui cioè non si prospetta un lavoro davvero “agile”, ma piuttosto un telelavoro che ha il solo scopo, comunque importante, di garantire la sicurezza e la continuità lavorativa delle Istituzioni Pubbliche in un momento di crisi limitato nel tempo. Date queste premesse è perciò fisiologico che, terminata la fase peggiore dell’emergenza sanitaria, lo smart working venga accantonato per tornare alle modalità lavorative più tradizionali.

Questa soluzione ha comunque lasciato perplessi diversi studiosi che lo considerano un passo indietro piuttosto anacronistico e non giustificato. Soprattutto, potrebbe rappresentare un’occasione mancata anche per migliorare il livello di digitalizzazione nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Come ha sottolineato il sociologo del lavoro Domenico De Masi (riferendosi al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza):

È assurdo che il piano contempli 50 miliardi per la digitalizzazione se poi i dipendenti pubblici devono stare tutti in ufficio

L’esempio del settore pubblico è importante perché va a tracciare la strada anche per le imprese private, andando a dividere quelle aziende che decideranno di tornare al lavoro in presenza con gli stessi protocolli precedenti a marzo 2020, da quelle che invece vorranno proseguire sulla strada intrapresa attuando una rivoluzione non solo tecnologica ma anche culturale, che è poi la vera essenza dello smart working.

La rivoluzione culturale dello smart working 

Non c’è dubbio che le prospettive di sviluppo dello smart working siano certamente legate all’aspetto tecnologico e alla digitalizzazione delle imprese, le quali devono necessariamente fornire ai propri dipendenti i giusti strumenti per poter operare da remoto in sicurezza e senza problemi. 

L’ambito strettamente tecnico, tuttavia, è solo una parte di una tematica che è molto più complessa e che riguarda direttamente la cultura aziendale, intesa come quell’insieme di abitudini e di procedure che in un’azienda contribuiscono a migliorare i livelli di efficienza e di produttività.

Laddove i protocolli non sono adeguati alla rivoluzione culturale richiesta dallo smart working, ecco che emergono quelle che sono le difficoltà più comuni, come le complessità di coordinamento e di monitoraggio del personale, la diminuzione del morale e delle motivazioni, la disgregazione dello stesso tessuto sociale dell’azienda, vale a dire dei suoi modelli operativi e delle abitudini quotidiane.

Quando accade tutto questo, l’assenza di interazioni e l’isolamento delle persone diventano ostacoli insormontabili, ed il lavoro da remoto non si può più considerare “smart”, ma anzi tutto l’opposto. Un buono smart working, invece, deve puntare sulla flessibilità del lavoro per aprire le porte di nuove opportunità ed incentivare la creatività delle persone. Questo cosa significa, in concreto, dal punto di vista delle aziende?

Significa che va sviluppata quanto più possibile la cosiddetta sensing capability, cioè una capacità di rilevamento, di comprensione di ciò che sta per succedere nel futuro più prossimo. Ciò vuol dire saper lavorare in modo elastico, senza affidarsi ciecamente a dei protocolli aziendali che, a volte, possono essere obsoleti o comunque non adattarsi al contesto del mercato in cui si sta operando.

Usare un approccio attivo allo smart working

Un altro aspetto molto importante è la capacità di mobilitazione: le imprese devono adottare un approccio attivo, ad esempio andando a creare le necessarie infrastrutture fisiche e digitali, oppure rifornendo i propri lavoratori di supporti tecnologici di qualità, o ancora formando e sviluppando le loro competenze digitali. 

Se questi parametri vengono rispettati, allora la maggior parte delle problematiche citate in precedenza possono venire superate agevolmente. L’isolamento dei dipendenti può essere facilmente eluso, se l’azienda fornisce ai dipendenti stessi la tecnologia per operare ad esempio tramite call online. Oppure offrendo la possibilità di adottare un modello ibrido, con solo alcune giornate in ufficio ed altre di lavoro da casa. 

Inoltre, se viene adottato un orario flessibile, basato sugli obiettivi e sulla qualità delle ore di lavoro piuttosto che sulla quantità, le persone avranno maggior tempo libero, le motivazioni ed il morale potranno aumentare, e così di conseguenza anche la produttività. È già successo in pieno lockdown, a maggior ragione si potrà verificare in tempi normali. 

Oltre ad aumentare la produttività del personale, le aziende possono ridurre i costi delle proprie infrastrutture. Una sede fisica è imprescindibile, ma un conto è dover ospitare centinaia di dipendenti ogni giorno, un altro avere delle turnazioni che permettono di ottimizzare gli spazi. 

Peraltro, in un’era in cui la Corporate Social Responsibility è un elemento di marketing fondamentale per le imprese, adottare lo smart working è un segno significativo della volontà di adottare un approccio sociale responsabile e, se vogliamo, anche ecologista (con più lavoratori in smart working si riduce il traffico, l’inquinamento, i mezzi di trasporto pubblico diventano più facilmente gestibili e dunque più sicuri).

Smart working, prospettive future

In conclusione, lo smart working non è buono o cattivo di per sé, ma la sua qualità dipende naturalmente dall’uso che ne viene fatto. È chiaro che, soprattutto in tempi incerti come quelli che stiamo vivendo, rappresenta una componente non trascurabile per il mondo aziendale del futuro. 

Se nell’immediato, con la fine della pandemia, è probabile (soprattutto in Italia) che si assista ad una contrazione del numero di imprese che lo adotteranno, è altrettanto vero che nei prossimi anni il dibattito su questo tema si intensificherà sempre più, e che saranno molte le aziende che inizieranno a prepararsi per la rivoluzione culturale necessaria a sfruttare lo smart working nel miglior modo possibile, rendendolo così un asset strategico che in futuro sarà imprescindibile nel mondo del lavoro.