Mare fuori, dalla serie alla realtà: come sono veramente le carceri minorili in Italia

L'acclamata fiction Rai Mare fuori è ambientata in un carcere minorile. Ma qual è davvero la realtà dei giovani detenuti? Proviamo a capirlo.

Mare fuori, fiction che con questa terza stagione ha raggiunto un successo incredibile, ha acceso i riflettori su un tema delicato: la situazione delle carceri minorili.

La serie, messa in onda nel 2020, è ambientata a Napoli, nell’Istituto Penale Minorile. È la prima serie in assoluto sul carcere minorile, mostra le vite di questi ragazzi, i demoni interiori con cui combattono, scissi tra i richiami esterni delle famiglie e il desiderio di riscatto, prigionieri anche della logica dell’appartenenza e del loro passato. Mostra storie di marginalità, relazioni distorte e devianza giovanile, all’interno di un contesto pedagogico di rieducazione.

Ma qual è la realtà del carcere minorile in Italia?

Mare Fuori: tra serie e realtà

La serie ha fatto record di ascolti. Qualcuno parla di una “Gomorra a fin di bene”, probabilmente proprio perché mescola teen drama e prison drama, mostrando che nella vita c’è sempre più di una chance.

La serie oscilla come un pendolo tra l’attrattività del male e la brama della libertà. Libertà tanto ricercata da chiamare la cagnolina di Pino abbandonata per strada “Libera”, libertà dalle catene del passato, libertà di poter intrecciare le proprie storie seguendo il proprio cuore oltre lo stigma sociale e le famiglie come tra Filippo e Naditza o tra Rosa e Carmine. Un ruolo chiave è anche svolto dagli educatori e dal ruolo quasi genitoriale che assumono verso quelle giovani vite così tormentate.

Puntando i riflettori sugli IPM, abbiamo indagato com’è la realtà.

Da Nisida al Beccaria: quale scenario nelle carceri

Nisida quasi imago del carcere minorile, ospita il maggior numero di detenuti, il 60% tra quelli italiani. Di cui 27 accusati per omicidio volontario, 80 per tentato omicidio e la maggior parte accusati di reati contro il patrimonio. Il codice che regola il processo penale minorile è del 1988, ricalcando l’articolo 27 della Costituzione: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Molta gente si è interessata al tema grazie alla fiction, ma bisogna fare attenzione a non romanticizzare una realtà molto dura. Come argomenta Raffaele Criscuolo, ex detenuto all’IPM napoletano:

È bello che questa serie abbia messo al centro il tema delle carceri minorili, però ho sempre l’impressione che allo stesso tempo i ragazzi che sono dentro vengano dimenticati, abbandonati a loro stessi. Non è vero che c’è il comandante che ti prende a cuore, che ti segue quando esci con la direttrice, come in una famiglia: questo a Nisida non c’era.

Tutte le risse, rivolte, accoltellamenti senza particolari conseguenze, e celle spesso aperte e permessi sono puro frutto della fiction. Nella storia di Nisida a partire dagli anni ’80 si registrano soltanto quattro evasioni, invece nella serie in pochissimo tempo se ne vedono tre. Alle volte, si tende a romanticizzare l’atmosfera del carcere dal “c’è il mare fuori” al “non doveva andare così”, all’amore dannato e tormentato come i nuovi Paolo e Francesca dei quartieri spagnoli e di Forcella, tra perdizione, riscatto, tormento e speranza. Ma non bisogna dimenticare la realtà:

“C’è tanta realtà ma ovviamente c’è anche tanto romanzo”

Spostandoci da Nisida al Beccaria, l’Istituto Penale per minorenni di Milano, ci troviamo di fronte ad una cruda realtà. Tornato sotto i riflettori a dicembre del 2022, mostra tutte le criticità di un sistema spesso trascurato. Con un record di 82 suicidi, l’evasione del dicembre del 2022 di quattro ragazzi, ha generato un’attenzione della comunità e della stampa. Claudio Burgio, cappellano dell’IPM ha dichiarato, “certamente a volte si ha la sensazione che i diritti dei minori siano davvero minori”, a cui fa eco il commento di Don Gino Rigoldi, ex cappellano dell’istituto “ci si augura che questa vicenda dia uno scossone al Ministero per un carcere in cui manca un direttore da 20 anni e ci sono lavori da 16”

Dai dati comprendiamo che le tante attività proposte faticano a tradursi in percorsi significativi di inserimento lavorativo. Clima detentivo teso, aggressioni al personale e rivolte interne portano ad eventi spiacevoli come i fatti del 7 agosto scorso, dove un ragazzo è stato violentato e malmenato nella sua cella.

 Importanti le parole di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”:

“I fatti del Beccaria non vanno strumentalizzati per far fare passi indietro. I ragazzi vanno educati prima che puniti. Il modello detentivo deve essere per loro residuale anche se sono giovani adulti. Vanno però messi in piedi modelli educativi avanzati investendo nella istruzione e nella formazione” 

All’interno delle carceri minorili in Italia, il tema del reinserimento

Gli istituti penali per i minori sono una realtà importante da conoscere. Attualmente ce ne sono 17 in totale, con giovani fino a 25 anni che hanno commesso un reato prima della maggior età. Dal ministero della giustizia apprendiamo che ospitano 385 giovani di questi solo 10 di sesso femminile.

L’obiettivo è rieducare per reinserire in società, aiutarli durante il loro percorso di crescita. Per questo l’organizzazione è similare a quella di un collegio, vengono organizzate attività scolastiche, di formazione professionale, di animazione culturale, sportiva, ricreativa e teatrale.

Spesso dopo il carcere non finisce lì, perché terminano di scontare la loro pena nelle comunità. Fin troppo affollate al punto da non riuscire ad evitare eventuali recidive e ricadute in “vecchie brutte abitudini”. Infatti, secondo i dati, il 68% dei detenuti tornano a delinquere.

Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti di Torino, pone l’attenzione su delle questioni fondamentali come l’età degli agenti: “il personale è quasi coetaneo dei ragazzi e questo è un problema perché crea molte turbolenze rispetto a quelle che nascono quando l’età degli agenti è più adulta”. Così come le comunità e l’aumento dei minori stranieri non accompagnati.

gli IPM sono luoghi di segregazione e le comunità servono per fare da ponte verso il reinserimento dei ragazzi nelle società. Ma sono troppe poche per farlo con tutti. Inoltre i minori non accompagnati sono più aggressivi, a causa delle storie difficili che hanno alle spalle, e andrebbero aiutati con un personale che oggi non esiste nelle carceri.

Ricordiamo inoltre che solo dal 2018 esistono norme specifiche sugli IPM, mentre prima venivano applicate le disposizioni generali sulle carceri.

Un problema sociale: lo stigma del detenuto

Una volta che sei un detenuto rischi lo stigma di esserlo per sempre. Nonostante i progetti per il reinserimento dei ragazzi che escono dagli IPM, spesso questo non trova una realizzazione reale e non si traduce in un concreto sostegno. Tutto ciò è testimoniato anche dall’ultimo rapporto di Antigone, e questo problema dovrebbe coinvolgere la società tutta a partire anche dalle istituzioni.

Sulla carta il modello della giustizia minorile è buono, ma se si vuole davvero parlare di integrazione sociale si deve coinvolgere la società a un altro livello.

L’associazione Antigone, continua a sostenere l’urgenza di intervenire sia da un punto di vista culturale ma anche da un punto di vista normativo.

In Italia il carcere è usato, anche per i minori, come strumento di neutralizzazione e di occultamento delle situazioni difficili da gestire altrimenti.

Nelle carceri dunque vi sono si i criminali, ma una parte, da non dimenticare o sottovalutare, sono in origine ragazzi disperati traditi dalla società. Ai quali questa non è né stata capace di dare un modello di vita o di speranza migliore ma neanche all’altezza di gestire la situazione dall’esterno. Per ripartire bisogna abbandonare lo stigma del “detenuto ora, detenuto per sempre”, che influenza non soltanto la percezione della società verso il detenuto, ma anche del detenuto verso se stesso.

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