E’ assolutamente demenziale pensare che scatenare una feroce guerra contro i colossi tecnologici cinesi non abbia conseguenze sul business dell’analogo settore americano.
La globalizzazione, che proprio nella tecnologia ha avuto il suo massimo sviluppo, piaccia o meno (a me non piace moltissimo), ha creato un intreccio inestricabile tra le imprese guida del settore ed un impatto sconvolgente sulla vita quotidiana delle popolazioni dei paesi sviluppati.
Per questo non ci voleva il premio Nobel per l’economia per comprendere che il macete brandito da Trump, quando ha inserito un po’ di società cinesi, tra cui il gigante Huawei, nella black list delle imprese soggette, per motivi di sicurezza nazionale, a forti restrizioni nei rapporti con le imprese americane, avrebbe colpito anche i bilanci delle imprese americane e complicato la vita dei consumatori (ed elettori) USA.
Eppure l’unico a non saperlo sembrava essere lui, che in questo modo credeva di punire gratis i cinesi per costringerli a miti consigli ed a riprendere le trattative in condizione di inferiorità.
Ma è bastato il dolore dei primi bernoccoli provocati sulla testa delle imprese tecnologiche USA dal boomerang che Donald ha incautamente lanciato, per fargli subito capire che forse aveva un po’ esagerato. Anche perché i cinesi non hanno battuto ciglio ed hanno ribadito che Huawei è pronta alla guerra e a lanciare il suo sistema operativo alternativo ad Android. Inoltre il leader cinese Xi Jinping ha incontrato i capi delle aziende cinesi che producono componenti che utilizzano le “terre rare”, da cui dipendono molte produzioni tecnologiche americane. In questo modo ha lanciato, senza la minima dichiarazione, il messaggio agli USA che la Cina ha potenti mezzi di ritorsione, che potrebbe utilizzare al bisogno.