No al licenziamento per tatuaggio, ma attenzione al disegno

Nonostante si tratta di una pratica di moda il tatuaggio ancora non è del tutto accettato nella nostra società. così chi decide di farsi tatuare rischia, anche il licenziamento. Vediamo quando è possibile evitarlo.

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Se i tatuaggi si stanno sempre più diffondendo tra tutte le età e tutte le categorie sociali, non sono ancora del tutto accettati dalla società. Sono ancora molte le persone che storcono il naso quando si trovano davanti una persona abbondantemente ricoperta da disegni colorati. Ma che cosa succede nel mondo del lavoro? Una persona può andare incontro al licenziamento se una mattina si presenta sul posto di lavoro con un bel disegno tatuato in un posto particolarmente evidente?

Partiamo col dire che né in Italia, né in Europa che con la Corte dei diritti dell’uomo si occupa anche dei nostri ricorsi in ultima istanza, esiste una normativa in merito. I tatuaggi, così come i piercing, o altre forme di decorazione del proprio corpo non sono nominate in alcuna norma. Di solito sono trattati solo se sono per esempio espressione di una fede religiosa, ma lì entriamo in un campo diverso. Questo significa che la materia è lasciata al buon senso delle parti e del giudice.

No al licenziamento per tatuaggi di un militare

L’unica categoria per la quale si vieta espressamente di sfoggiare tatuaggi in posti visibili sono le forze dell’ordine. I regolamenti di questi corpi stabiliscono che il tatuaggio sia pericoloso, perché li rende troppo riconoscibili e quindi impedisce che possano essere destinati a operazioni speciali In secondo luogo sarebbero lesivi della dignità dell’arma.

In una decisione del Tar dell’Emilia Romagna, però è stato aperto un varco nel regolamento. La vicenda riguarda un appuntato che si era fatto fare un tatuaggio e che su decisione del Ministro dell’Interno è stato colpito con la sanzione della perdita del grado per rimozione.

Il Tribunale Amministrativo ha sostenuto che una punizione verso il militare fosse legittima, perché il suo comportamento era andato contro il regolamento dell’arma dei carabinieri. 

Ciononostante il licenziamento è eccessivo perché dal momento che anche dove i tatuaggi per le relative dimensioni siano obbiettivamente deturpanti della persona, non si ravvisa per ciò solo il venir meno del rapporto fiduciario.

Con questa sentenza il tatuaggio non è stato del tutto sdoganato. Rimane ferma la libertà di decorarsi parti del corpo nascosti. Per quelli in vista, da quanto detto dalla sentenza invece è comunque prevista una sanzione disciplinare. Rimane ancora ferma la possibilità da parte del ministero di ricorrere al Consiglio di Stato. Del tutto aperta anche la questione relativa al contenuto del disegno, che potrebbe essere considerato inappropriato di per sé.

“Licenziamento” prima di iniziare a lavorare

Un'altra questione sempre esaminata quest’anno e sempre riguardante le forze dell’ordine è quella trattata dal Consiglio di Stato. In questo caso un’aspirante recluta è stata esclusa dalla partecipazione al corso di addestramento già in fase di visita medica. La ragione è stata la presenza di un tatuaggio su un braccio in un punto in cui non sarebbe stato coperto dalla divisa. Per la corte non ha costituito attenuante il fatto che il candidato avesse già iniziato a rimuovere col laser il tatuaggio. 

La sentenza del Consiglio di Stato n.658 del 27 gennaio 2020 ha stabilito che 

E’ legittima l’esclusione del candidato con un tatuaggio su parte non coperta da uniforme, ancorché in via di rimozione al momento della visita medica, perché l’accertamento dei requisiti fisici deve avvenire avuto riguardo al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda, in modo tale da garantire la par condicio tra i candidati, essendo altresì irrilevante il mero inizio della rimozione del tatuaggio, laddove spetta all’interessato dimostrare che, al momento dell’accertamento svolto dall’Amministrazione, fosse già ultimata la procedura di rimozione e, conseguentemente, fosse in toto eliminata la percepibilità visiva del tatuaggio, difettando altrimenti i requisiti psico-fisici per l’assunzione.

Quando è previsto il licenziamento per i civili tatuati

In assenza di una legge che espressamente si occupi di tatuaggi e lavoro, ci si deve per forza di cosa affidare, in caso di contenzioso alle decisioni dei giudici e alla interpretazione per estensione di altre norme, che si occupano di bilanciare i diritti del lavoratore a esprimere la propria individualità e quelli del datore di lavoro a dare l’immagine che ritiene più opportuna della propria azienda.

Anche se è scomodo dobbiamo sempre ricordare che il contratto di lavoro ha prima di tutto un’essenza di tipo economico. Qui si deve pensare soprattutto alle persone che lavorano a contatto col pubblico e che costituiscono una sorta di biglietto da visita per il negozio o l’ufficio che presidiano.

In linea generale, però niente fa propendere la bilancia verso un licenziamento indiscriminato di chi abbia un tatuaggio. Innanzitutto il problema si pone solo per tutti i disegni che si trovino in posti visibili. Tra questi, poi una seconda distinzione va fatta anche sulla base del disegno. Disegni innocui e di piccole dimensioni possono diventare solo una questione di gusto personale. La scelta di disegni particolarmente grandi, magari sul viso può invece creare problemi. A maggior ragione li crea se nel disegno sono rappresentate scene oscene, o per esempio frasi inneggianti al razzismo che di per sé possono costituire anche un reato.

Niente licenziamento senza regole precise

Ogni datore di lavoro ha il diritto di scegliere l’immagine che vuole dare della sua attività economica all’esterno. Anche se si fa fatica a dirlo ad alta voce è evidente per tutti che l’aspetto esteriore e il modo di vestirsi ha nella nostra società un peso non da poco. A maggior ragione ce l’ha in alcuni tipi di attività dove inconsciamente diamo maggiore autorevolezza a chi risponde alle nostre aspettative anche dal punto di vista esteriore.

Il datore di lavoro, però deve avvertire già dal momento dell’assunzione il lavoratore di quali sono le sue richieste in tema di dress code. Queste richieste dovranno essere inserite in un regolamento interno da consegnare in forma scritta e per maggiore sicurezza, dopo aver fatto firmare il foglio per presa visione. Quindi un tatuaggio fatto dopo l’assunzione potrà essere contestato solo se espressamente vietato già dall’inizio.

La regola però vale solo per tutto quello che sia visibile, quindi un lavoratore può per esempio offrirsi di coprire un tatuaggio sulle braccia con le manche lunghe. In secondo luogo la regola vale di solito solo per il personale direttamente a contatto con il pubblico. Mentre chi rimane nelle retrovie è abbastanza libero. La ragione è che si ritiene che i pregiudizi sociali potrebbero danneggiare l’attività quando per esempio i clienti di un dentista sono accolti da una receptionist con le mani piene di tatuaggi. Un danno del genere invece non può essere causato per esempio dall’odontotecnico che se ne sta nel suo laboratorio ad assemblare protesi e non viene mai in contato con i pazienti. È una regola ingiusta? Sì lo è, ma al momento la nostra società non riesce a guardare oltre all’immagine.

Assunzione esclusa per tatuaggio

Il lavoratore tatuato invece non ha alcuna tutela se si presenta già al colloquio di lavoro con un bel tatuaggio in evidenza. In questo caso anche se il datore di lavoro non si è premunito con un regolamento interno niente gli vieta di scartare  qualcuno anche per l’aspetto fisico. Probabilmente avrà anche l’accortezza di giustificare la scelta di un altro candidato con altre motivazioni.

È escluso invece il licenziamento per regolamento sopravvenuto. Il lavoratore visto in sede di colloquio e assunto non potrà poi essere sottoposto a sanzioni disciplinari invocando un regolamento successivo. Le regole da rispettare in questo caso sono quelle del momento dell’assunzione.

Evitiamo il licenziamento con il decoro

Così come succede per il tatuaggio anche l’abbigliamento o la pettinatura scelta possono essere argomento di frizione sul posto di lavoro. Anche da quelli discende il primo giudizio dato su di noi dall’esterno. In assenza di leggi che parlino di abbigliamento anche in questo caso quello che la fa da padrone è il buon senso e l’esistenza di una regola scritta.

Se il lavoratore deve indossare una divisa, o se si deve attenere a un codice di abbigliamento preciso questo deve essere previsto nel regolamento interno comunicato al momento dell’assunzione o meglio ancora nel contratto collettivo. In assenza di regole precise al lavoratore non potrebbe essere imposta alcuna sanzione e neppure il licenziamento se rifiuta di adeguarsi alle richieste del datore di lavoro in tema di aspetto fisico.

Questione del tutto diversa è quella del lavoratore particolarmente trasandato, o che non rispetti nemmeno le regole base dell’igiene. La valutazione, salvo casi estremi è piuttosto personale e complicata da dimostrare. La regola è che deve essere rispettato il decoro. La genericità del termine aiuta poco a dirimere le controversie. Ci dice però che il dress code non può essere contestato per altre ragioni: un esempio è un caso piuttosto datato di una lavoratrice alla quale si voleva imporre di rinunciare alla gonna per evitare gli sguardi dei colleghi. Il giudice aveva giustamente stabilito che in questo caso si fosse di fronte a una discriminazione.

Licenziamento se non indossiamo i DIP

Ancora diversa è il rifiuto di indossare i dispositivi di Protezione Individuale. Si tratta per esempio delle scarpe anti infortunistiche o degli alti capi di abbigliamento che proteggono il lavoratore da eventuali danni fisici. In questo caso è la stessa legge che impone l’obbligo di usarli. Il datore di lavoro deve vigilare sul corretto uso dei DIP e nel caso non siano usati può ricorrere alle sanzioni disciplinari opportune fino ad arrivare se non ci sono altre alternative al licenziamento.