Il pallino passa alla FED

Il linguaggio viene opportunamente studiato per indurre i risparmiatori alla fiducia sul destino di gloria futura dei mercati.

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Non si può salire sempre. Lo sa anche il principiante del trading. Un po’ meno l’investitore, quello che i professionisti dell’industria del risparmio gestito, i “consulenti” che gli vendono i fondi comuni, hanno istruito sulla “certezza” che nel lungo periodo i mercati finanziari sono votati al destino della salita inesorabile “verso l’infinito ed oltre”. Pertanto non bisogna guardare quel che succede ogni giorno, ma volgere la mente al lungo periodo. Già, ma quanto è il lungo periodo? Semplice. E’ fino a quando non verranno segnati nuovi massimi storici.

Anche il linguaggio viene opportunamente studiato per indurre i risparmiatori alla fiducia sul destino di gloria futura dei mercati. Se parlate con un consulente finanziario, difficilmente gli sentirete ostentare pudore e prudenza quando i mercati salgono. Le parole usate saranno, in ordine crescente di entusiasmo,  “rialzo”, “crescita”, “rally”, “volo”. Parole che spingono il cliente alla fiducia verso il certo arricchimento personale. Invece, quando i mercati attraversano un brutto momento, le parole usate sono “consolidamento”, “volatilità”, al massimo “correzione”. Per sentire la parola “ribasso” occorre proprio che il calo sia clamoroso. Il termine “crollo” non esiste nel loro vocabolario. Tutt’al più, dopo fasi di crollo prolungato e di ridimensionamento notevole dei listini, troppo evidente per essere negato, viene utilizzato il termine “terremoto”, che non è un termine scelto a caso, poiché evoca un evento imprevedibile ed inevitabile. Pertanto non imputabile ad alcun comportamento sbagliato nella gestione, ma unicamente al “destino”. Ovviamente, siccome dopo i terremoti c’è la ricostruzione, al cliente viene ribadita immediatamente la certezza che nella storia i mercati hanno sempre recuperato, per cui non c’è motivo di dubitare che anche quella volta succederà.

Chi fa trading invece non si occupa di lungo periodo e soprattutto non si lascia fregare dall’ideologia delle “magnifiche sorti e progressive” (citazione leopardiana) dei mercati. Sa che i mercati alternano fasi di rialzo e di ribasso, nonostante l’incessante opera di sostegno delle autorità di governo e monetarie, che ultimamente ha raggiunto livelli colossali con il pretesto della lotta alla recessione portata dal virus.

Dopo lo spettacolare rialzo messo a segno dai mercati europei la scorsa settimana e che già lunedì ha accusato qualche scricchiolio, ieri è stato perciò il momento delle prese di beneficio, anche abbastanza evidenti a metà mattinata. Colpa del settore bancario, che la scorsa settimana aveva trainato il recupero di oltre 10 punti percentuali del nostro Ftse-Mib, e in generale dei titoli che erano saliti di più nei giorni scorsi. Eurostoxx50 (-1,35%),  Dax (-1,57%) e Ftse-Mib (-1,49%) hanno chiuso la giornata con saldi simili, ma nella prima parte della seduta la scivolata ha superato abbondantemente il -2% per tutti e tre gli indici. Poi, nel pomeriggio, constatato che anche Wall Street scendeva, ma SP500 sembrava tenere il minimo di 3.196 punti del giorno prima, hanno chiuso la seduta allontanandosi un po’ dai minimi mattutini. I tre indici europei ci consegnano comunque un modello grafico chiamato Bearish Engulfing, che quando viene al culmine di un movimento rialzista, segnala con discreta affidabilità l’inversione di trend di breve periodo.

Certo, la trasformazione dell’acquazzone di ieri in una pioggia torrenziale dipenderà dal comportamento degli indici USA, che ieri hanno lanciato segnali discordanti. SP500 e Dow Jones hanno attuato una controllata discesa intorno al punto percentuale, con il primo che ha tenuto ed è comunque rimbalzato dal minimo di 3.193 ed a metà seduta sembrava quasi in grado di azzerare la perdita. Ma il mitico indice tecnologico Nasdaq100 (+0,66%), che nei giorni scorsi aveva brillato al punto da migliorare il suo massimo storico, non solo ha avuto una seduta positiva, in controtendenza, ma è stato addirittura calamitato da quota 10.000, che è riuscito a superare ben due volte nell’ultima ora della seduta.

Questo ci porta a dubitare ancora sulla volontà dell’inossidabile Wall Street di correggere.

Anche perché l’attesa per la riunione FED di questa sera è palpabile.

E’ vero che Powell e soci hanno ormai preso l’abitudine di comunicare i cambiamenti della politica monetaria al di fuori dalle canoniche riunioni mensili, ma il mercato è abituato a seguire con notevole interesse il FOMC e soprattutto esaminare il comunicato finale e la Conferenza Stampa di Powell, sperando sempre che arrivi qualche regalo monetario. Anche stavolta gli investitori USA, in cuor loro, sperano nell’ennesimo pacco dono di zio Jay, che sarebbe molto gradito anche da Trump, in evidente affanno elettorale ed indietro nei sondaggi, dopo le disavventure sanitarie sul coronavirus ed i tumulti popolari delle minoranze etniche.

Gli operatori sperano che Powell sia rimasto impressionato dalla certificazione ufficiale dell’ingresso degli USA in recessione, retrodatata a partire dal mese di febbraio, che il National Bureau of Statistics, cioè l’ISTAT americano, ha emanato lunedì. Sperano che la recessione, di cui gli indici si sono fatti un baffo, tornando nei pressi dei massimi storici o anche oltre (il Nasdaq), convinca Powell a toni ancor più accomodanti di quelli mostrati finora.

In tal caso potrebbero provare un altro saltino verso i massimi storici. Altrimenti, se Powell sarà ambiguo o deludente, prenderanno atto che per qualche giorno bisogna scendere, magari per convincere Powell ad essere più chiaro e soprattutto generoso.

Questa sembra la logica che i mercati potrebbero seguire. Anche se, c’è da giurarci, faranno come gli andrà di fare. Come sempre.