Negli ultimi tempi non si sente altro che parlare di crisi del debito pubblico, deficit e possibili soluzioni per risolvere questi problemi. Andiamo a vedere cosa sostiene a riguardo uno dei più importanti atti politici dopo il Trattato sull’Unione Europea: il Patto di Stabilità e Crescita. La definizione del PSC, va inquadrata nell’ottica più ampia di integrazione delle politiche economiche e monetarie intrapresa dagli Stati membri dell’Unione Europea con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht nel quale, tra le condizioni fissate per l’ammissione all’UEM, spiccavano quelle riguardanti il disavanzo di bilancio (non superiore al 3% del PIL) e il debito pubblico (non superiore al 60% del PIL; in caso contrario, era necessaria una sua diminuzione fino al valore di riferimento fissato ad un tasso soddisfacente). Queste condizioni, inoltre, dovevano (e devono) essere rispettate anche dopo l’entrata nell’unione anche se, nel tempo, sono state apportate delle importanti modifiche alle modalità con le quali tali regole vengono applicate.Il PSC fu sottoscritto nel 1997 al fine di evitare un precoce fallimento del percorso di integrazione monetaria intrapreso nel ’92. Creato a tutela della solidità delle finanze pubbliche, si presenta come un quadro di norme per il coordinamento delle politiche di bilancio nazionali. Alla fine del ’95, il Lussemburgo era l’unico Stato in grado di rispettare i parametri di convergenza previsti nel Trattato, così si ritenne necessario rinegoziare le condizioni di accesso degli Stati membri all’eurozona. Le posizioni politiche che caratterizzarono il dibattito tra gli Stati membri furono sostanzialmente due: da una parte, la Germania (ma non solo) e la sua Banca Centrale ritenevano che i parametri non dovessero essere rinegoziati e che dovessero essere interpretati in modo rigido, dall’altra, Francia e Paesi mediterranei richiedevano più flessibilità, anche attraverso un giudizio politico sullo sforzo e sulla buona volontà dimostrati dagli Stati membri. Oltre queste due posizioni, ve ne fu una terza, intermedia, caldeggiata dal cancelliere tedesco Kohl, il quale proponeva inizialmente una “mini-unione” comprendente solo i Paesi “virtuosi” (sopra tutti Francia e Germania), in cui gli altri Paesi sarebbero potuti entrare in un secondo momento, dopo aver messo in ordine le proprie finanze pubbliche. L’idea della “mini-unione” cadde rapidamente, sia perché politicamente inaccettabile per i Paesi esclusi, sia perché, alcuni di essi, come Spagna e Portogallo, dal ’96 in poi si allinearono ai valori previsti dai parametri di Maastricht. Con il PSC gli Stati membri raggiunsero un compromesso secondo il quale, se da una parte si ebbe un forte irrigidimento del parametro riferito al rapporto tra deficit e PIL, dall’altra, si decise di non negare preventivamente l’accesso ad alcuno Stato membro. Tra l’altro, come conseguenza di quest’ultimo aspetto, si decise di rendere più elastico il parametro relativo al rapporto debito/PIL (la riduzione del debito, infatti, è obiettivo realizzabile soltanto nel lungo periodo) poiché, in caso di interpretazione restrittiva, molti Paesi, tra cui Italia, Spagna, Grecia e Paesi Bassi (questi ultimi ritenuti tra i Paesi modello della stabilità monetaria) sarebbero stati estromessi dall’unione monetaria. In cambio di queste concessioni, però, fu stabilito che, qualora il debito pubblico di uno Stato membro fosse stato superiore al 60% del suo PIL, esso sarebbe dovuto “diminuire sufficientemente fino al valore di riferimento, ad un tasso soddisfacente”. Per rendere vincolante questa prescrizione, il Patto impose di perseguire il pareggio di bilancio, eliminando quindi, la possibilità di poter registrare un deficit inferiore o uguale al 3% del PIL, così come si era inizialmente stabilito con il Trattato di Maastricht. In deroga a ciò, il Patto previde comunque un margine di tolleranza fino al 3%, a condizione però di recuperare tale deficit negli anni di congiuntura positiva. In ogni caso, questo parametro non doveva e non dovrà mai superare il valore del 3%; la pena è rappresentata da una pesante sanzione pari allo 0,2% del PIL, che potrebbe aumentare fino allo 0,5% del PIL. Paradossalmente, quindi, un Paese che ha già grosse difficoltà a contenere il proprio deficit verrebbe ulteriormente penalizzato con una sanzione.