Pensioni: assegni diminuiti dal crollo del PIL

Il crollo del PIL stimato per il 2020 avrà conseguenze negative anche sugli importi degli assegni pensionistici. I primi pensionati che toccheranno con mano questa riduzione della rivalutazione del montante contributivo saranno quelli che accederanno al trattamento previdenziale dal 1° gennaio 2023. Fino a quel momento, l'andamento del PIL non avrà effetti sugli importi dei trattamenti pensionistici.

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Partiamo subito da un presupposto: i lavoratori coinvolti da un rivalutazione sfavorevole dell’assegno pensionistico, saranno quelli che accederanno al pensionamento dal 2023. Prima di allora il PIL, qualunque sia il suo andamento attuale, non avrà effetti sull’entità dei tassi di rivalutazione applicati.

La Riforma pensioni del 1995 del Governo Dini, infatti prevede che il montante contributivo, ovvero il capitale messo da parte dal lavoratore con i versamenti dei contributi previdenziali, sia rivalutato annualmente sulla base dell’andamento della crescita nominale del PIL degli ultimi 5 anni. L’andamento di quest’ultimo, pertanto, andrà a incidere sull’assegno in maniera più o meno rilevante a seconda dell’entità delle sue variazioni nei 5 anni di riferimento. Periodi di grave crisi porteranno a rivalutazioni poco vantaggiose, o per nulla vantaggiose, del montante contributivo, che rimarrà comunque sempre protetto dagli effetti negativi di un tasso negativo grazie a un meccanismo reso operativo alcuni anni fa.

Il PIL 2020 quanto influirà sulle pensioni

La paralisi delle attività produttive durante il lockdown e la loro lenta e faticosa ripresa, in molti casi ancora in corso, ha portato nei primi tempi della pandemia a ipotizzare una drammatica contrazione del PIL. Ora qualche spiraglio di ottimismo sembra aprirsi. Da un -5,4% del primo trimestre dell’anno, siamo passati al -12,4% del secondo trimestre, e in occasione dell’atteso rimbalzo del terzo trimestre le stime più autorevoli, riporta il Sole 24, prevedono un discreto recupero del valore. Tuttavia, è molto probabile che nonostante tutti gli sforzi messi in atto dal Governo per fare fronte all’emergenza sanitaria, il PIL andrà a segnare una chiusura del 2020 con una flessione stimata intorno al 10-11%.

Il calcolo delle pensioni dal sistema retributivo al contributivo

Le ragioni di questa associazione fra pensioni e PIL risiedono nella Riforma Dini del 1995, con la transizione dal sistema di calcolo della prestazione pensionistica di tipo retributivo al sistema contributivo. Un passaggio dettato dall’esigenza di conservazione dell’equilibrio finanziario del sistema, che sposta il metodo di calcolo delle pensioni basato sulle retribuzioni percepite negli ultimi anni di attività (sistema retributivo), a una forma di calcolo più equa di determinazione del calcolo, che mette in correlazione diretta quanto versato (sistema contributivo) con quanto il soggetto andrà a percepire. I contributi versati vengono convertiti in rendita attraverso coefficienti di trasformazione calcolati in ragione di età di pensionamento e aspettativa di vita.

La Riforma delle pensioni di Dini prevede che i soggetti che al 1995 avevano almeno di 18 anni di contribuzione sarebbero rimasti all’interno del sistema retributivo. Chi invece fra il 1995 e 1996 aveva meno di 18 anni di contributi versati, sarebbe rientrato in un sistema misto basato sul metodo contributivo.

Questo metodo comporta il ricalcolo annuale del montante contributivo (ovvero l’intera somma che il lavoratore mette da parte con i versamenti previdenziali) sulla base di un coefficiente che ogni anno l’INPS fornisce estrapolandolo dall’andamento medio del PIL nei 5 anni precedenti.

Quali sono le pensioni penalizzate dal PIL negativo

Il crollo 2020 del PIL, secondo quanto prevede la Riforma Dini, non andrà a influire sulle pensioni attualmente in essere. I primi lavoratori che subiranno gli effetti di una mancata rivalutazione dell’assegno pensionistico a causa del crollo del PIL che stiamo vivendo ora, saranno quelli che accederanno al pensionamento dal 2023.

Nel calcolo, infatti, ogni annualità per rientrare nella media dei 5 anni richiede un biennio dalla comunicazione del PIL. Per quest’anno, l’ultimo tasso di capitalizzazione pubblicato è il 2019, calcolato sulla base della media della crescita nominale del PIL degli anni compresi fra il 2013 e il 2017. Richiedendo due anni dalla comunicazione del tasso, la contrazione del PIL 2020, di cui stiamo leggendo le anticipazioni in questi giorni, produrrà i suoi effetti sui tassi di rivalutazione a partire dal 2022, andando a coinvolgere i pensionamenti avviati dal 1° gennaio 2023 al 31 dicembre 2023. È evidente pertanto come tutti gli attuali trattamenti pensionistici in essere e quelli futuri, attivivati dal 2021 e fino alla fine del 2022 non subiranno gli effetti negativi generati dall’emergenza sanitaria Coronavirus.

Come influisce sulle pensioni il PIL negativo

C’è da chiedersi: Che effetto avrà sulla mensilità un coefficiente negativo, calcolato sulla media di 5 anni di crescita del PIL? Una situazione simile si è già verificata nel 2015, quando per la prima volta il coefficiente risultò negativo e il Governo si rese conto che questo stato di fatto avrebbe portato a una diminuzione dell’assegno pensionistico. Intervenne in quella occasione il Governo Renzi che definì la norma finalizzata a bloccare la variazione negativa. 

L'’art. 5 del DL 65/2015, per questa eventualità prevede come 

il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo come determinato adottando il tasso annuo di capitalizzazione non può essere inferiore a uno, salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive.

In altri termini, anche in caso di coefficienti negativi, lo scarto sarà sempre recuperato spalmandolo negli anni successivi con sottrazioni regolari ai tassi positivi futuri, senza quindi scendere sotto il valore 1.

Se questa norma, da una parte, garantisce una forma di protezione del tasso di rivalutazione del montante contributivo da valori negativi, dall’altra parte richiede uno sforzo di compensazione da parte del pensionato. L’assegno pensionistico subirà, infatti, una contrazione anche negli anni a seguire per fare fronte alla mancata svalutazione, con il recupero, della stessa svalutazione, su più anni attraverso coefficienti più bassi.

La crisi Coronavirus avrà effetti negativi sugli assegni di chi andrà in pensione a partire dal 2023. I pensionati che ne subiranno maggiormente le conseguenze saranno quelli che accederanno dal 1° gennaio al 31 dicembre 2023. I pensionati che richiederanno trattamenti pensionistici negli anni successivi, potranno beneficiare dei rimbalzi del PIL previsti per i prossimi anni, che andranno a modificare la media del valore nominale del quinquennio su cui l’INPS definirà il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo. È molto probabile, comunque, che un valore negativo del PIL importante come quello stimato per il 2020, richiederà un grande sforzo compensativo che potrebbe ridurre sensibilmente i vantaggi dei rimbalzi previsti del PIL nei prossimi anni. In termini economici per il pensionato, tutto ciò si traduce in una mancata rivalutazione per diversi anni del montante contributivo, che comunque non scenderà mai al di sotto di 1.

Di quanto sarà più bassa la pensione con il PIL negativo

Ormai esistono pochi dubbi sul fatto che per i prossimi anni il PIL italiano non regalerà grandi sorprese, e di conseguenza, in materia di pensioni, la rivalutazione del montante contributivo e i coefficienti di trasformazione ne subiranno le conseguenze negative.

Una stima del Messaggero ha tratteggiato il profilo di un lavoratore nato nel 1956, che inizia a lavorare nel 1980 e accede alla pensione a 67 anni, ovvero nel 2023, anno in cui l’effetto del PIL negativo del 2020 sulla media quinquennale sarà più imponente. Il neopensionato, secondo la stima, perderà circa il 2,7% della parte contributiva della pensione e circa l’1,7% dell’importo complessivo dell’assegno pensionistico lordo. 

Supponendo una mensilità di 1.000 Euro, il pensionato vedrebbe il proprio assegno decurtato di circa 17 Euro. Un importo relativamente basso, ma che dà il segno della misura della necessità di interventi legislativi e di riforma pensionistica in grado di salvaguardare non solo chi già beneficia di trattamento di quiescenza, ma anche i lavoratori che nei prossimi anni faranno richiesta di pensione di vecchiaia.