...venghino, venghino!

Il Jobs Act di Renzi non solo non risolve i problemi delle economia della Nazione, ma rischia di amplificare il divario fra i nuovi disoccupati e quelli cronici.

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Da quando è stato inventato l’aratro, possiamo dire che l’economia di una società, per quanto semplice o complessa che fosse, la si è potuta misurare, innanzitutto, dalla qualità e dalla quantità del lavoro in essa prodotta. E’ praticamente unanime affermare che l’Italia, da grande Paese del Mediterraneo e seconda potenza economica europea, s’avvia inesorabilmente a vestire i panni del paese più bistrattato dell’economia del vecchio continente. Ben peggiore, addirittura, di alcuni paesi dell’ex blocco sovietico. Intendiamo, avrà ancora molti primati, come quello turistico o come quello della meccanica di precisione; senza parlare del Made in Italy. Ma il suo tessuto produttivo è inesorabilmente compromesso, seppure resistano (chissà per quanto tempo) le PMI, le quali, al momento, tengono in piedi tutto il sistema. Molti economisti autorevolissimi osservano che ci vorrebbe una scossa radicale e profonda a tutta la struttura economica del Paese, che passi per una coraggiosa ed articolata riforma basata sul sostegno al reddito. Altri invece, tendono ad affermare che l’unica via d’uscita sarebbe quella di ammodernare gli impianti, i metodi ed il mercato del lavoro, con il fine di ottenere una maggiore produttività complessiva. Ed è questa la teoria dominante. Il pensiero unico. Quindi si tratterebbe, per costoro, di dover tagliare i costi di produzione, lavorando di più, meglio e con salari ridotti, ed il gioco sarebbe fatto. Già. La cinesizzazione della produzione con tassi monetari europei: il massimo ! In questa ottica, seppure presentata con un marketing advertising all'avanguardia, si profila il Jobs Act del Presidente del Consiglio Matteo Renzi. La “nuvola” innovativa si basa essenzialmente nel “dare dei soldi agli italiani” affinché si rilanci l’occupazione a partire dallo stimolo a maggiori consumi. Penso che mai, nella storia politica degli ultimi decenni, un titolare dell’Esecutivo abbia osato tanto. L’imbonimento è tale e tanto che tutti, ma proprio tutti, si astengono dal dare qualsiasi parere argomentato, per non rendersi complici, fino ad un certo punto, dell’inevitabile flop che piano piano si profila col passare del tempo. Questi pseudo ammiccamenti a Keynes lasceranno il tempo che trovano nel momento in cui s’accorgeranno che 10 miliardi all'anno in un sistema che ne perde almeno dieci volte tante è come cercare di riempire d’acqua uno scolapasta. Una politica del lavoro che abbia l’effetto di massa critica nella situazione in cui versa l’Italia oggi, deve non solo prevedere l’immissione a sistema di almeno cinque o sei volte la somma prevista dal Jobs Acts di Renzi, ma nel contempo deve essere concepita a beneficio circolare di tutti i soggetti economici, e lo deve fare contestualmente e molto, ma molto velocemente. Da un giorno all'altro. Dividersi (e dividere) su quale braccio debba pesare il favor del cuneo fiscale è, di per sé, già avere fallito. E’ come se per fermare un veicolo imprimessimo il freno alla ruota di destra e non a quelle di sinistra o a quelle anteriori e non a quelle posteriori. E né possiamo dire che ne siamo obbligati perche abbiamo poco olio dei freni. Insomma, incidere su di uno dei fattori tralasciandone gli altri, porterà l’economia ad una maggiore instabilità, rischiando di farla uscire di strada. Il moltiplicatore keynesiano funziona a patto e condizione che sia quantitativamente sostenibile e qualitativamente equilibrato. Un migliaio di euro all'anno in busta per dieci milioni di cittadini, l’abbattimento del cuneo fiscale di qualche decimale “sulla parte del lavoratore” possono comprare il consenso elettorale ma non risolvono i problemi economici del Paese. I tempi dei contentini per la fidelizzazione politica sono finiti già molto tempo fa. Con la migliore Democrazia Cristiana.