Climate change, per gli investitori è difficile evitare i rischi

Sapere dove è localizzata l’attività di una impresa e come gestisce le minacce metereologiche sono informazioni importanti per chi vuole valutare i pericoli climatici dei titoli in portafoglio. Le comunicazioni sul primo aspetto, dice Sustainalytics, spesso sono lacunose. E molte società non hanno piani per la gestione di eventi straordinari.

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Gli investitori possono proteggersi dal climate change? L’impresa è ardua, dice Sustainalytics, per due motivi: una grossa lacuna nella comunicazione da parte delle società riguardo alla localizzazione geografica delle attività e la forte impreparazione nella gestione di questi rischi.

La ricerca, condotta su un campione di 3.064 società a livello globale, dimostra come solo 486 di esse (il 16% del totale) inseriscano nella loro documentazione periodica delle informazioni relative alla geo-localizzazione degli asset produttivi (impianti, stabilimenti, terreni). E che anche tra le “virtuose” è alta la percentuale delle quelle che danno definizioni poco precise, rendendo difficile per gli investitori valutare il rischio legato al climate change della propria esposizione azionaria.

Primo problema: poca trasparenza nella comunicazione

I dati riportati dalla ricerca (Vedi Figura 1) dimostrano come il 15% degli asset produttivi a livello globale sia impossibile da localizzare a causa delle informazioni generiche date dalle società (Other). La regione con il più alto grado di concentrazione di attività è il nord America (52%), seguita da Asia (15%) ed Europa (9%). Solo l’1% delle 486 società che pubblicano dati di questo tipo, infatti, offre anche una segmentazione per paese sull’ubicazione dell’attività.

Figura 1: Ripartizione per continente degli asset produttivi a livello globale

Il grado di trasparenza nella comunicazione all’esterno della localizzazione geografica degli asset varia molto da settore a settore. Per dimostrare questo gli analisti di Sustainalytics hanno selezionato 10 industrie diverse (delle 135 che formano il campione iniziale) per un totale di 417 società e hanno scoperto che nessuna delle aziende attive nel comparto cavi e satelliti pubblica dati di questo tipo. A seguire, le imprese nel comparto immobiliare e dei servizi alla comunicazione che mostrano una percentuale inferiore al 5%. Le migliori in questo senso sono invece quelle attive nella produzione di oil&gas (42% del campione), in particolar modo quelle più grandi con una forte presenza a livello globale, subito seguite dalle multi-utility. Più staccate le utility dell’energia (Figura 2).

Figura 2: Percentuale delle aziende che comunicano la distribuzione geografica delle attività

Secondo problema: scarsa gestione del rischio climatico

Se l’analisi del grado di esposizione geografica al rischio è il primo passo che deve fare l’investitore, il secondo è valutare il modo in cui le aziende lo gestiscono. Per questo gli analisti di Sustainalytics hanno selezionato dal campione i cinque sottosettori più esposti a eventi climatici acuti (cicloni, alluvioni o incendi): cavi e satelliti, servizi alla comunicazione, edilizia, immobiliare e turismo (200 società in totale).

Come mostrato dalla Figura 3 il comparto più preparato in questo senso è quello telecom. Anche se le società sono fortemente polarizzate tra chi mostra una gestione del rischio almeno adeguata (circa il 56% del totale) e chi invece dichiara di non avere un programma per fronteggiare queste calamità o ne ha uno che, secondo le valutazioni di Sustainalytics, è molto debole (44%). Le società peggiori sono quelle nelle industrie dell’edilizia e dei cavi e satelliti.

Figura 3: Valutazione della gestione dei rischi climatici acuti

Allo stesso modo gli analisti si sono concentrati sui cinque settori maggiormente esposti ai rischi climatici cronici come i cambiamenti di lungo termine legati alla temperatura atmosferica e alle precipitazioni (agricolutura, utility dell’energia, multi-utility, oil&gas integrato, produzione ed estrazione di petrolio). Anche in questo caso i risultati sono stati molto deludenti. Solo il 26% delle 145 società appartenenti alle cinque industrie dimostra di avere dei programmi credibili di gestione del rischio idrico. Il comparto oil&gas integrato è il più virtuoso, con il 38% delle aziende che ha messo in campo delle misure per contrastare questo problema, mentre quelle attive nella produzione ed estrazione di petrolio sono le peggiori (in quasi l’80% dei casi le misure di gestione del rischio idrico sono assenti o molto deboli). Tra le utility, le società attive in più servizi sono meglio posizionate di quelle che operano nella distribuzione di energia elettrica. E anche il comparto dell’agricoltura, che è uno dei più esposti agli effetti del cambiamento climatico, dimostra di essere fortemente impreparato alla sua gestione.

Di Francesco Lavecchia