Intervento pubblico, c’è (anche) un problema di governance

La razionalizzazione delle partecipate è stata oggetto negli anni di numerosi interventi legislativi, con risultati inferiori alle attese. E ora che si torna a discutere di intervento diretto dello stato, la governance delle società pubbliche rimane spesso inadeguata.

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La razionalizzazione delle partecipate è stata oggetto negli anni di numerosi interventi legislativi, con risultati inferiori alle attese. E ora che si torna a discutere di intervento diretto dello stato, la governance delle società pubbliche rimane spesso inadeguata.

Si torna molto a discutere di intervento pubblico in economia. La partecipazione pubblica nelle imprese viene considerata una possibile risposta alle conseguenze economiche della pandemia: va in tal senso, ad esempio, il Quadro temporaneo sugli aiuti di stato adottato dalla Commissione Europea che consente misure di ricapitalizzazione; l’ingresso dello stato in diverse compagnie aeree, duramente colpite dalla crisi, ne è una manifestazione concreta. In anni recenti questo tema è stato al centro del dibattito nel nostro paese per la proliferazione del numero di partecipate (soprattutto a livello locale), l’inefficienza delle loro gestioni e il sospetto che la loro esistenza fosse principalmente funzionale alla distribuzione di incarichi. Le riflessioni sul tema sono state a lungo viziate dall’assenza di un’esatta fotografia del fenomeno. In un recente lavoro abbiamo ricostruito, incrociando diversi database, l’universo dei soggetti partecipati, indagandone l’evoluzione nel tempo e approfondendo l’analisi sulla loro governance.

Il lento (e incompiuto) processo di razionalizzazione

Secondo le nostre stime, nel 2018 le partecipate (direttamente e indirettamente) dal settore pubblico erano circa 7.300. L’intensità della partecipazione era tuttavia eterogenea: più della metà era controllata (spesso al 100 per cento) da pubbliche amministrazioni, ma in un numero significativo di casi la partecipazione era marginale. Le partecipazioni cosiddette “polvere” (inferiori all’1 per cento) riguardavano all’incirca una società su dieci. Del totale delle partecipate, circa un quarto non era organizzato in forma societaria: si tratta soprattutto di associazioni, fondazioni o consorzi.

Tra il 2011 e il 2018 il numero delle partecipate pubbliche è diminuito di oltre un quinto (figura 1). Sono state dismesse soprattutto imprese piccole (oltre la metà aveva meno di cinque addetti) e non profittevoli (nella maggioranza dei casi registravano risultati di esercizio negativi). Non sorprendentemente, tra le società di capitali dismesse circa il 60 per cento non era più attiva nel 2018, o perché uscita dal mercato o perché inglobata in altre società.

La riduzione del numero delle partecipate può essere attribuibile a diversi fattori. In primo luogo, alcuni interventi legislativi hanno ridotto la “convenienza” a servirsi di società partecipate per sottrarsi alle regole che vincolano le amministrazioni pubbliche (per esempio per quanto riguarda le regole di bilancio o le procedure di assunzione del personale). In secondo luogo, alcune riforme nei servizi pubblici locali possono aver favorito dei processi di aggregazione in tale comparto. Infine, hanno influito alcuni interventi legislativi – da ultimo il testo unico del 2016 (D.Lgs. 175/2016 o Tusp) – che si prefiggevano la razionalizzazione delle partecipazioni pubbliche attraverso la loro alienazione o la chiusura delle società. Il Tusp, in particolare, fissava dei criteri quantitativi per la dismissione delle partecipazioni. Tra le partecipate che dovevano essere oggetto di razionalizzazione in base a questi criteri, tuttavia, solo il 14 per cento era stato effettivamente dismesso al 2018.

La riduzione del numero delle partecipate è stata, quindi, modesta se rapportata agli obiettivi iniziali che prevedevano una riduzione delle partecipate “da 8 mila a mille” (secondo il programma del commissario straordinario Cottarelli) o comunque un quasi dimezzamento (applicando i criteri imposti dal Tusp).

Figura 1 – Evoluzione delle partecipate pubbliche, 2011-18.

Fonte: elaborazione su dati Mef e delle Camere di commercio.

La scarsa (ed eterogenea) qualità della governance

L’enfasi sulla necessità di razionalizzare le partecipate pubbliche non si è accompagnata ad altrettanta attenzione al miglioramento della governance – aspetto su cui si sofferma anche l’Ocse, evidenziando con specifiche linee guida l’importanza sia degli strumenti di governo societario (per esempio la selezione degli amministratori), sia delle modalità con cui i soggetti pubblici esercitano il loro ruolo di socio. L’importanza di una buona governance delle imprese pubbliche emerge anche in molti aspetti della nostra analisi.

Il numero degli amministratori delle società controllate, pur essendo diminuito tra il 2011 e il 2018, rimane superiore a quello osservato in imprese private simili per dimensione, localizzazione e settore di attività. Gli amministratori, inoltre, si caratterizzano per una minore esperienza professionale e una maggior probabilità di aver ricoperto ruoli politici. Questi elementi sono rilevanti per la performance delle imprese: la presenza di manager con maggiore esperienza si associa a una maggiore profittabilità e a una minore incidenza del costo del lavoro sul fatturato. Una più elevata quota di amministratori che hanno svolto attività politica, al contrario, si associa a una maggiore incidenza del costo del lavoro.

Anche la qualità del socio pubblico conta. Per verificarne gli effetti abbiamo sfruttato un indicatore di corruzione a livello locale, basato sull’incidenza dei reati di corruzione, sulla fiducia dei cittadini verso le istituzioni pubbliche locali, sulla percezione del grado di integrità delle amministrazioni e sulla qualità della spesa pubblica. Abbiamo diviso il campione in cinque aree geografiche caratterizzate da un rischio di corruzione crescente e analizzato come si modifica il differenziale di performance tra le imprese controllate e quelle simili operanti nel privato. I risultati mostrano che all’aumentare del rischio di corruzione peggiorano significativamente, per le società controllate dal pubblico, sia la profittabilità (figura 2a) sia l’efficienza operativa, come mostrato dall’incremento dell’incidenza del costo del lavoro (figura 2b).

Figura 2 – Performance delle imprese controllate e rischio di corruzione.

Fonte: elaborazione su dati Mef, delle Camere di commercio e di Cerved Group. Sia la profittabilità sia l’incidenza del costo del lavoro sono misurati in percentili.

Considerazioni conclusive

L’attenzione del legislatore e dell’intero dibattito pubblico sul tema delle partecipate si è a lungo concentrata sulla dimensione quantitativa del fenomeno: pur essendo difficile stabilire quale sia il numero ottimale di società pubbliche (dipende, tra le altre cose, dalle attività che si considera opportuno che esse svolgano e dalle dimensioni che esse devono avere per sfruttare adeguatamente le economie di scala), si considerava che esso fosse eccessivo. I diversi scenari dei vari interventi di razionalizzazione, ampiamente disattesi, si sono concentrati sull’eliminazione delle società più piccole, colpendo solo marginalmente le sacche di inefficienza. L’attenzione per la razionalizzazione sembra ora scemata, a vantaggio di un diffuso favore per una più ampia presenza pubblica nell’economia. Tuttavia, non è solo una questione di quantità dell’intervento pubblico, ma anche di qualità. C’è poca attenzione, in particolare, al tema della governance delle partecipate, quando invece sia la qualità dei soci pubblici sia le competenze degli amministratori possono influenzare in misura significativa la performance di queste società.

Di Sauro Mocetti e Giacomo Roma

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