Reddito di cittadinanza, cambiamenti in vista, ma quali?

La misura è all’attenzione, tra posizionamenti politici e tattiche parlamentari, ma in pratica le ricette sono tutte da definire. Draghi difende il concetto, ma probabilmente le politiche attive del lavoro e altro cambieranno il quadro. Tutti i numeri di una misura che fa discutere

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Tuoni e fulmini sul reddito di cittadinanza. In Italia come sempre la situazione è sempre grave, mai seria, perché è chiaro a tutti che più che un dibattito sulla povertà, la disoccupazione o la formazione professionale, quello in corso è il solito rimpiattino di bandierine tra fazioni. Il tema, tra accuse e posizionamenti, è più bagarre politica che proposta economica. Poche le concrete alternative messe in campo dagli schieramenti. I numeri possono forse orientare il lettore smarrito verso un’equanime analisi del caso.

  • La povertà in Italia esiste eccome, lo certifica l’Istat:

Nel 2020, sono in condizione di povertà assoluta (https://www.istat.it/it/dati-analisi-e-prodotti/contenuti-interattivi/soglia-di-poverta ) poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%). Dopo il miglioramento del 2019, nell’anno della pandemia la povertà assoluta aumenta raggiungendo il livello più elevato dal 2005 (inizio delle serie storiche). Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019).

  • Nel periodo gennaio-luglio 2021 il reddito di cittadinanza è stato percepito da 1.499.228 nuclei familiari, con 3.550.342 persone coinvolte e un importo medio a nucleo pari a 579,01 euro. La pensione di cittadinanza ha invece riguardato 156.115, con 176.771 persone coinvolte e un importo medio di 267,29 euro. Da questi numeri sono escluse le misure del Reddito di emergenza contro la pandemia che ha riguardo numeri elevati, come prevedibile.
  • I costi del reddito di cittadinanza sono elevati e crescenti, nel 2019 (il RdC è stato varato nell’aprile di quell’anno) 3,825 miliardi (Fonte bilancio INPS), ben 7,198 miliardi di euro nel 2020 (Rendiconto generale INPS a pagina 22) e probabilmente altrettanti nel 2021 (le previsioni per il triennio erano di 18,3 mld).
  • A fine giugno quasi 435 mila beneficiari del reddito di cittadinanza (il 37,8% del totale) ha avuto un contratto alle dipendenze o subordinato negli ultimi 24 mesi.
  • Sono tenuti alla sottoscrizione di un patto per il lavoro 1.150.152 percettori del reddito di cittadinanza, ma solo il 34,1% è stato preso in carico nel senso che ha sottoscritto un patto per il lavoro al centro per l’impiego o ha un patto di servizio in corso di validità: sono 392.292 persone, ma altre 3.727 sono in tirocinio.  In particolare la Corte dei Conti ha calcolato: “Alla data del 10 febbraio 2021 sono 152.673 le persone che hanno instaurato almeno un rapporto di lavoro successivo alla data di presentazione della domanda”. E in particolare sarebbero: “Il 65 per cento con contratto a tempo determinato, il 13 per cento con contratto a tempo indeterminato, il 16 per cento con altre tipologie e il 4,2 con contratto di apprendistato”. Si tratta quindi, come hanno semplificato diversi osservatori, di uno su sette.

A titolo di confronto la quota 100, che in passato è stata contrapposta nella cartellonistica politica, ha registrato in totale 267.802 domande accolte alla fine del 2020 (su poco meno di 360 mila presentate). La Fondazione Di Vittorio, partendo dagli 1,75 miliardi circa stanziati nel 2019, al via del provvedimento, ha calcolato tra pubblico e privati un costo di 1,75 miliardi di euro nel 2019, di 4,65 miliardi nel 2020 e la stima di 5,49 miliardi quest’anno per un totale di 11,89 miliardi di euro circa nel triennio al termine del quale il provvedimento potrebbe scadere. Se si aggiungono il blocco speranza di vita per le pensioni anticipate e la proroga dell’opzione donna si ottengono 20,98 miliardi di euro.

Va ricordato che in genere gli osservatori internazionali hanno visto con maggiore sfavore “quota 100” rispetto al reddito di cittadinanza, soprattutto perché gli interventi italiani sulla spesa pensionistica (la Fornero per l’esattezza, ma non solo) erano visti come uno dei maggiori successi anche a confronto con gli altri Stati. Il pensionamento anticipato sembrava una discontinuità negativa che avrebbe potuto intaccare la solidità dei conti pubblici. Neanche il Reddito di cittadinanza è stato comunque visto come un provvedimento eccellente, anzi. Il Fondo Monetario Internazionale già a inizio 2020 ne scriveva:

Il reddito di cittadinanza punta sui più vulnerabili. I suoi pagamenti sono però ben oltre gli standard internazionali; diminuiscono troppo rapidamente col crescere delle dimensioni del nucleo familiare, penalizzando le famiglie più numerose e povere, e decadono rapidamente se viene accettata un’offerta di lavoro, specialmente per un basso salario. Questo sistema dovrebbe quindi essere allineato con la best practice internazionale per evitare disincentivi al lavoro e dipendenza dallo stato sociale.

Si sente l’eco di queste considerazioni anche da un pulpito ben diverso, quello dell’Alleanza contro la povertà, l’associazione che cerca di analizzare questa istanza sociale con proposte costruttive dal 2013. In un panel di proposte per la modifica del reddito l’Alleanza inserisce anche (al primo posto) una trasposizione delle tabelle di equivalenze Isee, più generose e articolate, in quelle attuali del Reddito di cittadinanza, proprio con l’obiettivo di evitare la penalizzazione delle famiglie numerose che subito è stata denunciata nel RdC. 

Reddito di cittadinanza: la Caritas dice la sua

Una realtà che conosce da vicino il problema della povertà, come la Caritas, ha redatto un articolato dossier sul reddito di cittadinanza evidenziando pregi e difetti della misura, con delle microsimulazioni evolute. Nel rapporto si legge:

Il tasso di copertura delle famiglie in povertà assoluta da parte del RdC è pari a circa 44% a livello nazionale (terzultima colonna, prima riga), ma tale percentuale cresce al 52% nel Mezzogiorno e al 49% tra le famiglie povere in affitto.

Quindi solo il 44% delle famiglie in povertà assoluta riceverebbe il reddito di cittadinanza che è diretto soprattutto a questa fascia della popolazione.

Ci sono però anche successi:

A livello nazionale, il tasso di efficacia del RdC (quanti percettori del RdC riescono grazie ad esso ad uscire dalla povertà) è molto alto se si considera che (solo per l’aumento del potere d’acquisto determinato dal beneficio monetario) quasi il 60% dei percettori poveri riuscirebbe a oltrepassare la soglia di povertà assoluta. La percen¬tuale di nuclei poveri che escono dalla condizione di povertà grazie alla misura è più elevata nel Sud e tra le famiglie monocomponenti, dove il tasso di efficacia del RdC è del 61%. Si veda anche in seguito per una discussione della generosità relativa del RdC al variare del numero dei componenti.

C’è poi la nota dolente dei falsi percettori del reddito di cittadinanza, coloro che lo percepiscono senza essere poveri. Il rapporto non conteggia le false dichiarazioni Isee dove pure si annida gran parte del problema, ma anche facendo due calcoli così:

Per quanto attiene invece al tasso di falsi positivi, dalle stime emerge che circa un terzo delle famiglie beneficiarie del RdC non sono in verità da considerare povere assolute nel complesso del territorio nazionale. Come atteso, questa problematica risulta mag¬giormente diffusa tra le famiglie di piccola dimensione e, anche se in misura minore, tra quelle che risiedono nel Mezzogiorno. La pre¬senza di falsi positivi aiuta a spiegare come mai il tasso di copertura delle famiglie in povertà (44%) sia circa la metà del tasso di take-up del RdC stimato (80%). Quest’ultimo infatti fa riferimento alla copertura degli aventi diritto piuttosto che dei poveri.

La Caritas ribadisce ancora l’idea che il reddito, così com’è, penalizza le famiglie numerose. Sul tema diversi osservatori però confidano nella prossima introduzione dell’assegno unico e universale alle famiglie con figli (AUUF) che potrebbe bilanciare questa incoerenza. Solo dopo pagina 400 il report della Caritas fornisce qualche indicazione su una possibile modifica del Reddito di cittadinanza, pur ribadendo che il fatto che 3,7 milioni di persone nel 2020 della pandemia abbiano potuto usufruire di almeno una mensilità, “ha rappresentato un argine fondamentale contro la povertà in questa fase così difficile”. Certo sono venuti in soccorso 400 milioni di euro ai Comuni per solidarietà alimentare e il Reddito di Emergenza (REM), ma ora bisognerebbe pensare alla lotta “ordinaria” alla povertà per esempio intervenendo sui limiti al patrimonio mobiliare che per il reddito di cittadinanza paiono troppo vincolanti e nel REM sono stati accresciuti (da 6 mila euro a 10 mila per i singoli, da 10 a 20 mila euro per le famiglie più numerose).

Un altro vincolo enorme sarebbe poi proprio nell’ISEE che ha dimostrato di non cogliere sempre (anzi) la reale situazione economica delle famiglie.

Per la Caritas bisognerebbe anche abbassare da 10 a 2 anni di residenza in Italia la soglia per il reddito di cittadinanza, alzare le soglie di povertà al Nord Italia.

Abbassare le soglie d’accesso per le famiglie con una persona o due appare poi essenziale e andrebbe accompagnata a una rimodulazione della scala di equivalenza per scongiurare ancora una volta la penalizzazione delle famiglie più numerose. Senza attaccarsi ai 780 euro (la soglia di rischio di povertà relativa definita con criterio Eurostat – 60% del reddito mediano equivalente – per il 2014), un numero che ha condizionato tutto il progetto.

Anche la Banca d’Italia in un working paper del settembre 2020 aveva affermato che “il reddito di cittadinanza è efficace nel ridurre le disuguaglianze e nell’attenuare l’incidenza, e ancor di più l’intensità, della povertà assoluta”. Lo stesso studio evidenziava però una disparità di risultati per territorio (i piccoli centri avvantaggiati sulle città) e per nucleo familiare (le piccole famiglie sulle numerose).

Dal reddito di cittadinanza al lavoro di cittadinanza?

La formula “lavoro di cittadinanza” ha il copyright del ministro dello Sviluppo economico Giorgetti (Lega). Di là dal posizionamento politico dell’affermazione (alla Lega serviva qualcosa di meno forte del “metadone di Stato” di Giorgia Meloni, FdI, ma ancora in contrapposizione al Movimento Cinque Stelle), il punto è proprio nelle politiche attive del lavoro, che, nonostante i navigator, hanno partorito i deboli risultati di cui sopra.

D’altronde è il campo in cui si è posizionato il premier Mario Draghi del cui esecutivo lo stesso Giorgetti fa parte: il premier ha infatti sottolineato di condividere il concetto di base del reddito di cittadinanza (d’altronde solo la Grecia è arrivata dopo l’Italia in Europa nell’introduzione di una misura di reddito e Bruxelles chiedeva un sostegno di questo tipo dal ’92). Draghi ha però spostato l’accento sulle politiche attive del lavoro, d’altronde il Recovery Plan mette in campo 5 miliardi di euro per ricorrere a formazione e riqualificazione (che in Italia fatti bene non si sono praticamente mai visti). Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha infatti lanciato il GOL (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) che punta queste risorse su questi aspetti (con una parte dedicata alla crisi aziendali).

È la gamba che manca al successo del reddito (per i difensori), è il simbolo del suo fallimento (per i detrattori), di certo è un problema.

I consulenti del lavoro che con definizione un po’ anni ’80 sono stati chiamati navigator sono 2.481 (erano 2.798 a “regime”), anche ammettendo che i circa 150 mila occupati del reddito di cittadinanza (i dati della Corte dei Conti di cui sopra) siano stati tutti trovati da loro ne avrebbero impiegati 61 a testa in due anni, troppo poco se si considera che in Italia ci sono 2,34 milioni di disoccupati e 13,49 milioni di inattivi. Va poi detto che chiaramente non tutti hanno trovato lavoro grazie al reddito di cittadinanza, anzi.

Di certo rischiano di essere disoccupati anche questi 2.500 navigator e molti starebbero facendo un pensierino sugli 11.600 posti a tempo indeterminato (il navigator è a tempo determinato) che le regioni promettono in supporto dei centri per l’impiego (che già hanno 8 mila dipendenti). C’è il rischio insomma che si passi di casacca e che, anche se un avvicinamento al territorio delle agenzie ufficiali del lavoro è stato richiesto da più parti (per molti il REI funziona meglio anche per questo motivo), si sostituisca un clientelismo nazionale con uno regionale. Tutto sta nell’efficacia come detto e per quello ci vuole un cambiamento ancora solo sognato, nella formazione, nei data-base, nelle competenze degli uffici pubblici, nelle norme.

Ancora una volta in concreto si vedrà, di certo per ora il nuovo quadro di questo “lavoro di cittadinanza” appare tutto da definire.

(Giovanni Digiacomo)