Al Mondiale 2022 in Qatar abbiamo già perso tutti: perché è il trionfo dello sportwashing

Infuriano le polemiche sui mondiali in Qatar 2022, ma si tratta di situazioni di lungo periodo. Ecco perché è il trionfo dello sportwashing.

Morti sul lavoro, sfruttamento sui migranti e sistematiche violazioni dei diritti delle donne e della comunità LGBTQIA+ non sono certo arrivati un mese fa in Qatar, quando si è iniziato a parlare più apertamente di queste tematiche.

Ma se tutti ne erano a conoscenza, come si è arrivati ad un mondiale in inverno in un paese che non può definirsi né democratico né rispettoso della Carta dei diritti dell’Uomo?

Un capolavoro di sportwashing: come il Qatar punta a ripulire la sua immagine grazie allo sport

Per sportwashing si intende un insieme di pratiche effettuate da parte di governi (o aziende), volte a sfruttare lo sport per rendere la propria immagine più moderna e distogliere l’attenzione dalle condizioni disastrose in cui versano i diritti umani dei propri cittadini. Il caso del Qatar in questo senso è certamente paradigmatico.

La decisione di ospitare i Mondiali di Calcio 2022 in Qatar data al dicembre 2010, ma a quel punto il Qatar aveva già da tempo predisposto una rete di infrastrutture e di investimenti volti a rendere il paese eleggibile per il torneo. Nello stesso periodo, esplose anche il caso di corruzione all’interno della Fifa.

Negli anni precedenti, il Qatar aveva poi convinto numerosi campioni di fama internazionale (come Guardiola, Desailly, Effenberg e Sonny Anderson) a giocare nella giovanissima Qatar Star Leage, terminando con contratti milionari carriere ormai giunte al termine.

Dopo anni di stenti, grazie a questa strategia la nazionale del Qatar è finalmente riuscita a qualificarsi terza all’ultima coppa d’Africa, mostrando di avere a disposizione una squadra in grado, probabilmente, di superare per lo meno il primo girone di eliminazioni.

Ma il vero grande momento di svolta per il Qatar è l’acquisto di una delle squadre più forti e prestigiose al mondo, ovvero il Paris Saint-Germain, che arriva nel 2011 per un totale di 2,5 miliardi di dollari.

Nel frattempo, il Qatar cerca di mettere le mani anche sul Bayern Monaco, (è infatti azionista di Volkswagen e sponsorizza i bavaresi con Qatar Airways).

Ultimo asso nella manica è stato Neymar (è stato il Qatar Sports Investments a finanziare il pagamento della clausola da 222 milioni di euro che gli ha permesso di approdare al Paris Saint-Germain), che ha collaborato a più riprese con il Qatar, in quanto ambasciatore della Qatar National Bank e testimonial di Qatar Airways.

Quella che è stata prodotta è quindi l’immagine finta e patinata di un Paese moderno, una sorta di “Svizzera araba”: un’operazione di sportwashing perfetta, da cui però non bisogna farsi ingannare, come dimostrano le ultime dichiarazioni sugli omosessuali e lo scandalo dei morti sul lavoro, o dove più banalmente non sarà possibile bere birra.

Un mondiale all’insegna dello sfruttamento e della violazione dei diritti. Perché allora lo sportwashing funziona così bene?

Lo sportwashing funziona bene, anzi benissimo, e il successo del Mondiale in Qatar ne è la prova definitiva. Ma com’è possibile che una strategia del genere possa funzionare nell’epoca della libera informazione?

In primo luogo, bisogna ricordare come le operazioni di sportwashing siano condotte da soggetti estremamente ricchi e influenti; si è visto il giro di milioni messo in piedi dai qatarioti per arrivare a questo punto, e soprattutto il fatto che questo mondiale sarà il più costoso di sempre.

Ma soprattutto è da sempre presente l’idea che lo sport e la politica debbano restare due cose distinte e non incontrarsi mai, che però alla prova dei fatti si rivela piuttosto ingenua (a questo riguardo, si consiglia di riguardare film come Race, il colore della vittoria o La battaglia dei sessi)

Inoltre, il pubblico dello sportwashing è di solito quello dei grandi tifosi, appassionatissimi allo sport ma non altrettanto alle informazioni collaterali alla questione, e che talvolta possono addirittura mostrarsi infastiditi da commenti di questo tipo.

Forse anche per questo, difficilmente il giornalismo sportivo finisce per trattare direttamente queste tematiche, che sembrano essere esclusiva competenza della divisione esteri.

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