Smart Working: luci e ombre di una rivoluzione da remoto

Gli ultimi dati disponibili sul lavoro agile evidenziano come nel 2023, in Italia, il ricorso allo smart working sia tornato a crescere sensibilmente.

Lo smart working ha conosciuto una rapida e capillare diffusione in Italia durante la recente pandemia di Covid-19. Tuttavia, malgrado lo scatto compiuto dal 2020 in poi, il lavoro agile resta ancora una modalità di lavoro limitata in Italia. Secondo gli ultimi dati dell’Inapp, Istituto che da tempo si occupa di raccogliere dati e tendenza sul lavoro agile, nel nostro Paese nel 2022 appena il 14,9% degli occupati svolgeva parte dell’attività da remoto: una percentuale che è salita vertiginosamente con lo scoppio della pandemia. In questo l’Italia non fa eccezione rispetto all’Europa, anche se il livello di penetrazione dello smart working resta al di sotto delle best practise continentali. Basti pensare che nel 2019 nei 27 Paesi dell’Unione europea solo il 14,6% degli occupati lavorava abitualmente da casa.

Poi con il dilagare del Covid, alcuni Paesi, che già nel 2019 mostravano valori superiori alla media Ue, hanno intrapreso un trend di crescita che è proseguito negli anni successivi (si tratta di Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Danimarca, Francia, Estonia, Malta e Portogallo). L’Italia, che nel 2019 aveva percentuali al di sotto della media europea, con l’emergenza sanitaria ha raddoppiato tali valori. Nel 2021, tuttavia, il tasso di crescita del ricorso al lavoro agile è decisamente rallentato (4,8% nel 2019, 13,7% nel 2020, 14,9% nel 2021 secondo i dati EU-LFS, con valori ancora più bassi tra i dipendenti: dall’1,7% del 2019 al 12,1 del 2020 e al 13,8 del 2021).

Insomma, pur in presenza di un allineamento rispetto ai valori medi europei, non si può ancora dire che l’Italia abbia recuperato tutto il ritardo accumulato. Nel nostro Paese, emerge dai dati, sono ancora presenti ostacoli e viscosità che ostacolano la diffusione del lavoro agile. In Italia la quota del lavoro da remoto varia ampiamente: si va dal 25% per le professioni intellettuali o esecutive al 2% di quelle non qualificate. Dietro questa distribuzione vi è sicuramente il differente grado di fattibilità del lavoro da remoto nelle diverse professioni, ma anche la differente capacità manageriale di adottare nuovi modelli di organizzazione del lavoro facendo uso delle nuove tecnologie digitali. È il caso del settore privato extra-agricolo: in questo ambito, nelle imprese fino a 5 dipendenti, l’84% dei lavoratori svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza, ma al crescere della dimensione dell’azienda tale quota si riduce (il 56,4% fra quelle medie, 50-249 addetti e 34,2% fra le realtà con oltre 250 addetti).

Altra discriminante che determina la possibilità di accedere o meno al lavoro agile è il tipo di mansione svolta. Secondo i dati dell’Inapp, infatti, a svolgere un lavoro telelavorabile sono soprattutto i laureati, i dipendenti delle imprese di grandi dimensioni, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. Incidenze leggermente superiori alla media delle professioni telelavorabili si rilevano tra le donne, i residenti nel Nord Ovest e nel Centro e le persone con diploma. La percezione di alcuni vantaggi e svantaggi del telelavoro fa emergere, inoltre, una differenza di genere con gli uomini, che apprezzano in particolare la maggior autonomia, e le donne, che mostrano invece maggiore preoccupazione riguardo alle prospettive di carriera (50,9%), ai diritti e alle tutele sindacali (52,8%) e al maggiore controllo da parte del datore di lavoro (53,3%).

Lo smart working torna a crescere nel 2023

Gli ultimi dati disponibili sul lavoro agile evidenziano come nel 2023, in Italia, il ricorso allo smart working sia tornato a crescere sensibilmente dopo la pausa del 2022.  Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, nei 12 mesi appena trascorsi i lavoratori da remoto nel nostro paese hanno raggiunto quota 3,585 milioni, evidenziando una leggera crescita rispetto ai 3,570 milioni del 2022. Rasta in ogni caso grandissimo il balzo compiuto rispetto all’epoca pre-Covid (+541%). Nel 2024, inoltre, l’Osservatorio stima che saranno 3,65 milioni gli smart worker attivi in Italia.

Nelle grandi imprese la diffusione maggiore

Analizzando i risultati della ricerca emergono alcune tendenze di fondo, che si sono radicate nel ‘modello italiano’ di lavoro agile. In primo luogo emerge una diffusione più ampia di questa forma di lavoro nelle imprese di dimensioni maggiori. La ricerca evidenzia, infatti, che nel corso del 2023 i lavoratori da remoto sono cresciuti in particolare nelle grandi aziende. In questo comparto, i lavoratori smart sono oltre uno su due, pari a 1,88 milioni di persone. In aumento sei segnala anche il ricorso a questa forma di organizzazione del lavoro nelle Pmi. I numeri parlano di oltre 570mila lavoratori, pari a circa il 10% della platea potenziale. In calo, invece, il ricorso allo smart working nell’universo delle microimprese (620mila lavoratori, il 9% del totale) e nelle Pubbliche Amministrazioni (515mila addetti, pari al 16%).

Quasi tutte le grandi imprese (96%) prevedono al loro interno iniziative di smart working, in larga parte con modelli strutturati, e ben il 20% delle imprese è impegnata a estendere l’applicazione anche a profili tecnici e operativi precedentemente esclusi. Lo smart working è presente anche nel 56% delle pmi, dove viene spesso applicato con modelli informali spesso gestiti a livello di specifici team, e nel 61% degli enti pubblici, con iniziative strutturate presenti soprattutto nelle realtà di maggiori dimensioni.

Il futuro dello smart working

Allo stato attuale praticamente tutte le grandi imprese prevedono di mantenere lo smart working anche in futuro. Solamente il 6% si dichiara incerta a tale proposito. Nelle Pubblica Amministrazione c’è invece maggior incertezza: il 20% che non sa come evolverà l’iniziativa, una titubanza che si avverte soprattutto nelle organizzazioni di minore dimensione. Seguono le Pmi: il 19% non sa come o se la propria organizzazione prevedrà l’utilizzo dello smart working. Complessivamente, si prevede per il 2024 una crescita del numero dei lavoratori coinvolti, che si stima arriveranno a 3,65 milioni.

Nuove forme di flessibilità

Accanto allo smart working l’ultimo anno ha visto l’avvio di sperimentazioni di nuove forme di flessibilità sul lavoro, tra cui quella della settimana corta, applicabile anche a profili che non possono oggi fruire del lavoro da remoto. È una soluzione, quest’ultima, sperimentata da meno di una grande azienda su 10 con esperienze pilota, spesso limitate a brevi periodi. Il 3% delle grandi aziende, invece, ha introdotto le ferie illimitate, il 41% ha eliminato le timbrature. Il 44% sta sperimentando il “Temporary distant working” che prevede di poter lavorare completamente da remoto per alcune settimane o anche per più mesi, continuativamente, in alcuni casi anche dall’estero.

Gli effetti positivi dello smart working

Molte indagini convergono nel sottolineare che lo smart working porta con sé alcuni effetti positivi. Il primo è sull’ambiente: 2 giorni a settimana di lavoro da remoto evitano l’emissione di 480kg di CO2 all’anno a persona grazie alla diminuzione degli spostamenti e il minor uso degli uffici. Lo smart working, inoltre, ha effetti sul mercato immobiliare e sulle città: il 14% di chi lavora da remoto ha cambiato casa o ha deciso di farlo, scegliendo nella maggior parte dei casi zone periferiche o piccole città alla ricerca di un diverso stile di vita, con un effetto di rilancio per diverse aree del paese. Un cambiamento che ha generato iniziative di marketing territoriale e nuovi servizi, come nuove infrastrutture di connettività o spazi coworking. D’altronde, il 44% di chi lavora da remoto l’ha già fatto – almeno occasionalmente – da luoghi diversi da casa propria, come spazi di coworking, altre sedi dell’azienda o altri luoghi della città.

L’impatto del lavoro agile su psicologia e socialità nei luoghi di lavoro

La diffusione dello smart working, tuttavia, ha portato con sé una serie di problematiche che sono sfuggite ad una prima analisi, probabilmente a causa della sopravvalutazione dei benefici durante la pandemia da Covid-19. Uno tra i primi studi ad evidenziare le conseguenze negative del lavoro agile è stato condotto da Linkedin. La ricerca ha indagato in particolare gli effetti psicologici dello smart working su un campione di oltre 2.000 lavoratori e i risultati hanno messo in evidenza una serie di effetti negativi. Schematizzando è emerso che

–        il 46% dei lavoratori intervistati prova più ansia e stress per il proprio lavoro rispetto al lavoro in ufficio;

–        Il 22% degli intervistati ha anticipato l’orario di inizio delle attività lavorative

–        il 24% dei lavoratori lavora più delle canoniche 8 ore

–        il 48% ammette di lavorare almeno un’ora in più al giorno

–        il 16% è preoccupato che il datore di lavoro lo licenzi

–        il 19% è ansioso per la sopravvivenza della propria azienda

–        il 18% dei lavoratori riferisce che il lavoro da casa ha un’influenza negativa sulla propria salute mentale

–        il 27% ha difficoltà a dormire

–        il 22% prova una qualche forma d’ansia

–        il 26% ha difficoltà di concentrazione durante il giorno.

Altre indagini hanno evidenziato come la perdita dell’interazione sociale sul luogo di lavoro, la mancanza di confronto e quindi di apprendimento dal prossimo, la perdita di sicurezze e di punti di riferimento, l’apparente minore opportunità di partecipazione alla vita dell’azienda, il rimodulare psicologicamente e praticamente la propria vita familiare, sono tutti motivi per uno spiccato aumento di ansia e frustrazione.

La ricerca del Mit: con meno interazione in ufficio c’è anche meno innovazione

Lo smart working e la limitazione che comporta nell’interazione tra colleghi sul luogo di lavoro può determinare, inoltre, una riduzione della capacità di innovazione all’interno di una azienda o di una istituzione. È il risultato a cui è giunto uno studio condotto del Senseable City Lab del Massachussets Institute of Technology che ha indagato il rapporto tra la convivenza fisica sul luogo di lavoro e la formazione di nuove relazioni e collaborazioni. Lo studio, pubblicato su Nature Computational Science, ha dimostrato che la compresenza in ufficio è essenziale per la formazione dei cosiddetti “legami deboli” tra colleghi e che queste interazioni sono state notevolmente ridotte dal lavoro da remoto.

La definizione di “legami forti” e “legami deboli” è stata data nel 1973 dal sociologo americano Mark Granovetter: i legami forti uniscono gruppi definiti di persone che lavorano in stretta interazione e formano di fatto un circuito chiuso, mentre i legami deboli si stabiliscono tra membri singoli di gruppi diversi, con frequenza più irregolare. È proprio tra i legami deboli, però, che si creano gli scambi più proficui di nuove informazioni e idee all’interno di un’organizzazione, stimolando di fatto l’innovazione.

L’impatto del lavoro da remoto sui legami deboli tra colleghi

L’articolo pubblicato su Nature Computational Science analizza i flussi di posta elettronica di 2.834 docenti e ricercatori che lavorano in più di 100 Dipartimenti e laboratori di ricerca del MIT, scambi effettuati tra il 26 dicembre 2019 e il 15 luglio 2021. I risultati principali dello studio dimostrano che l’istituzione di un regime totale di lavoro a distanza a partire dal 23 marzo 2020 ha causato un calo del 38,7% del numero di nuovi legami deboli formati tra i colleghi, con un impatto cumulativo nel tempo.

Nei 18 mesi presi in analisi dallo studio, questo calo iniziale è equivalso a una perdita prevista di oltre 5.100 nuovi legami deboli, circa 1,8 a persona. Anche se a colpo d’occhio non sembra molto, la perdita è comunque sostanziale in un ambiente come quello della ricerca, che si nutre di interazioni soprattutto tra discipline diverse, ma non solo. Lo studio rileva che le cosiddette “ego networks” (le reti di contatto e scambio che sono proprie di ciascun individuo) sono diventate via via più stagnanti nel corso dei mesi di lavoro lontani dalla sede fisica dell’ufficio. Venendo a mancare i legami deboli si è intensificata la connessione tra i legami forti: insomma, i ricercatori hanno continuato a comunicare molto, ma solo con le persone con cui avevano già collaborazioni aperte.

L’impatto dello smart working sulla distribuzione del reddito da lavoro

Un altro degli effetti imprevisti dello smart working riguarda la sua influenza sulla distribuzione del reddito da lavoro. Uno studio dell’Inapp condotto nel 2022 ha evidenziato che i lavoratori con un’alta attitudine al lavoro agile hanno in media un vantaggio salariale del 10% rispetto ai lavoratori con una bassa attitudine allo smart working: un vantaggio che raggiunge il 17% tra i lavoratori con i redditi più alti. Nel dettaglio lo studio dimostra che l’attitudine al lavoro agile favorisce le fasce di reddito più alte, nonché i dipendenti di sesso maschile e di età più avanzata.

In termini di indicazioni di policy, il lavoro dell’Inapp rende evidente che l’eventuale diffusione del lavoro agile come modalità di lavoro ordinario rischia di esacerbare le già esistenti disuguaglianze di reddito in Italia. Questa modalità di organizzazione del lavoro, specialmente se utilizzata in maniera massiccia in ambito pubblico e privato, dovrebbe pertanto essere affiancata da politiche di sostegno al reddito abbastanza ampie da coprire i dipendenti più vulnerabili nel breve periodo, e da politiche attive in grado di colmare potenziali lacune di competenze nel lungo periodo.

Conclusioni

Non c’è dubbio che lo smart working sia stata una risorsa decisiva durante i mesi più bui della pandemia e abbia garantito la continuità della ‘vita aziendale’ in molte imprese. Indirettamente la diffusione del lavoro agile ha anche accelerato importanti cambiamenti tecnologici e sociali e ha rivoluzionato i modelli organizzativi predominanti nel mondo del lavoro in Italia. Ad una prima fase in cui lo smart working si è diffuso in modo non regolamentato nelle aziende in ragione dell’emergenza sanitaria ne è seguita una seconda in cui aziende e lavoratori hanno cercato e, spesso trovato, un nuovo modello di gestione che mediasse tra lavoro in presenza e lavoro agile. È in questa seconda fase che si è iniziato a prendere coscienza degli effetti indesiderati generati da questa modalità di organizzazione del lavoro.

Effetti che hanno riguardato la dimensione psicologica dei lavoratori, la loro produttività e capacità di innovazione per arrivare alla stessa distribuzione del reddito. Si tratta di conseguenze che, inoltre, sono solo parzialmente visibili oggi perché, in alcuni casi, i loro effetti si dipaneranno nel medio-lungo termine richiedendo quindi una osservazione prolungata da parte di ricercatori e aziende per valutarne la portata nel loro insieme.  

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