Prezzo della benzina in calo, ma con la guerra in Israele si rischia una nuova impennata

Al momento il prezzo della benzina è in calo, ma è inevitabile che la guerra in Israele porterà ad una nuova impennata. Ecco perché

Dopo un’estate passata col prezzo della benzina intorno e poi sopra i 2 euro al litro, di recente l’asticella ha cominciato a scendere, anche se lentamente.

Il problema è che con la nuova recrudescenza tra Hamas e Israele il rischio di una nuova impennata è quasi certo, se il conflitto dovesse diventare guerra totale e coinvolgere altri attori economici del Medio Oriente.

In particolar modo tutti gli Stati aderenti all’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio: un loro coinvolgimento, e quindi un rallentamento nella produzione e nell’esportazione del greggio sarebbe esiziale per gli approvvigionamenti europei e americani.

Prezzo della benzina in calo, ma non del petrolio

Il calo del prezzo della benzina c’è, anche se molto lieve. Dopo quota 2 euro di settembre, si vede nelle ultime rilevazioni dell’Osservatorio prezzi del ministero dello Sviluppo economico dell’8 ottobre 2023 un rientro verso i prezzi pre-estivi: al self service 1,948 euro al litro per benzina, 1,917 euro al litro per il gasolio.

Il giorno prima dell’attacco di Hamas la Borsa aveva chiuso le quotazioni Brent, quelle indicizzate sul petrolio del Mare del Nord venduto nel mercato europeo, con contrattazioni al di sotto degli 85 dollari al barile.

Una situazione tutto sommato “felice”: la benzina stava scendendo.

Poi avvenne l’assalto di Hamas, e l’inizio della guerra in Israele. Oggi in mattinata le quotazioni sono arrivate a 87,5 dollari, con scambi notturni addirittura oltre 90 dollari al barile. E così anche il petrolio nella borsa americana, che chiude in rialzo a New York, dove le quotazioni salgono del 4,33% a 86,38 dollari al barile.

C’è nervosismo, e questo soltanto dopo 2 giorni di conflitto. E se si aggiunge anche il recente stop alle esportazioni di diesel dalla Russia, il timore che questa sia una fase transitoria, precedente ad un cataclisma, è abbastanza realistico.

Con la guerra in Israele si rischia una nuova impennata

Israele si trova nel cuore del Medio Oriente. Attorno a sé ha paesi che hanno un proprio ruolo di rilievo nella produzione e nella distribuzione di materie prime energetiche.

La risposta “isterica” della Borsa di oggi potrebbe essere in realtà una reazione comprensibile al rischio di un conflitto che potrebbe durare tanto quanto sta durante quello russo-ucraino, ormai al suo 20esimo mese.

Se il conflitto dovesse spegnersi nei prossimi giorni, massimo settimane, il rischio diventerà irrisorio. Ma una sua cronicizzazione, o peggio una sua escalation, e l’estensione dei confini del conflitto all’interno di altri Stati del Medio Oriente (Libano, Egitto, Siria…) renderebbe concreto un potenziale aumento dei prezzi del petrolio, con conseguente impennata dell’inflazione.

Da qui sarebbe un effetto domino che ricadrebbe su europei e americani: con l’aumento dell’inflazione, BCE e FED sarebbero obbligate ad alzare ancora una volta i tassi d’interesse, mandando in soffitta ogni sperato avvicinamento al picco dei tassi.

Oltre a rate dei mutui ingestibili, e nuove ondate in insolvenze bancarie, la vera catastrofe sarebbe per il settore auto: forse per la prima volta nella Storia i prezzi della benzina potrebbero raggiungere i 3 euro al litro.

Quanto costava la benzina prima delle guerre

A riprova dell’aumento del greggio (e in generale del prezzo della benzina) nei primi giorni di un conflitto, basti solo riguardare le quotazioni del Brent tra il mese di dicembre 2021 e febbraio 2022.

Ancora prima del crescendo bellico tra fine gennaio e il 24 febbraio 2022, il Brent aveva registrato una quotazione mensile di 74,17 dollari al barile (fonte Statista).

A febbraio arriva a 97,13, ben il 12,27% in più rispetto agli 86,51 dollari di gennaio 2022. Senza contare le punte di 117 e 121 dollari registrati tra marzo e giugno 2022.

Per oltre un anno il Brent non è più risalito a livello mensile sopra i 90 dollari al barile, in parte per le risposte europee e americane in vista della cronicizzazione del conflitto russo-ucraino. Risposte che potrebbero non essere resistenti ad una nuova impennata dei prezzi della benzina e del gasolio. Non se a venire colpiti dall’escalation saranno i paesi dell’OPEC.

Organizzazione chiave nella distribuzione mondiale delle riserve orientali di greggio, già al tempo della guerra del Kippur l’OPEC volle imporsi sul palcoscenico mondiale. E nel peggiore dei modi possibili: con un embargo sul greggio.

La strategia dell’embargo è la stessa in uso da parte di Putin per quanto riguarda petrolio e soprattutto gas, alla quale però l’UE ha risposto con nuovi accordi con paesi “terzi” nella distribuzione del petrolio. Peccato che tra questi ci siano diversi paesi aderenti all’OPEC, e con quote molto considerevoli nella bilancia dell’import energetico.

Cambiare fornitore non sarà assolutamente facile nel caso in cui l’OPEC si imponesse sulla guerra in Israele e disponesse un embargo in vecchio stile: sempre nell’OPEC ci sono Stati come gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran e l’Iraq, oltre che Kuwait e la Libia. Senza contare i paesi “esterni”, come la Venezuela. Tutti insieme perché grandi esportatori di petrolio.

Ricordiamo che il celebre embargo del 1973 fu un vero shock energetico per tutti i paesi occidentali. Anche se durò meno di un anno, le sue conseguenze si protrassero per quasi un decennio, tra razionamenti energetici, politiche di risparmio e stagflazione diffusa.

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