Perché la Cina costruisce in Africa, e su quali asset e Stati sta investendo di più

Ci sono diverse ragioni per cui la Cina continua tutt'oggi a investire in Africa, in particolar modo in questi Stati e asset.

Malgrado i recenti cataclismi e i golpe, l’Africa è meta di investimenti e finanziamenti dell’ordine di miliardi. In particolare modo dalla Cina, che da anni sta puntando molto sul continente africano.

Al punto da diventare nel 2009 suo principale partner commerciale, dopo decenni di egemonia statunitense.

Il perché di tutto questo interesse da parte della Repubblica Popolare Cinese per un continente come l’Africa è tutto relativo alla numerosità e alla tipologia degli asset su cui sta oggi investendo, oltre anche agli Stati con cui il Dragone sta facendo affari.

Qual è lo scopo degli investimenti cinesi in Africa

Pechino ha avviato ormai da oltre due decenni degli scambi commerciali con molti Stati africani, talmente floridi che il commercio bilaterale ha toccato quota 254,3 miliardi di dollari.

Una quota che rende la Cina il principale partner dell’Africa, dopo decenni di Stati Uniti a decidere le sorti commerciali del continente.

Diventare il nuovo “padrone” dell’Africa permette di poter controllare, nel lungo periodo, mercati e centri di produzione che potrebbero diventare necessari in un mondo che punta sempre di più alla tecnologia informatica e all’automotive di qualità.

A sua volta, col rischio di ritrovarsi in casa una bomba demografica in cui ci sono più anziani che giovani nel mondo del lavoro, avere un’incredibile forza lavoro in Africa, oltre che risorse e infrastrutture già pronte, permette alla Cina di superare i propri problemi interni senza dover varare riforme strutturali “pesanti” per la propria popolazione.

Il voler a tutti i costi investire in Africa trova forza anche nella sempre più crescente repulsione da parte dei paesi africani nei confronti dei paesi del Vecchio e Nuovo Mondo (anche se l’Unione Europea gioca ancora un ruolo di primo piano, con proposte come il Piano Mattei del Governo Meloni).

Cosa sta costruendo la Cina in Africa: gli asset principali

La Cina costruisce in Africa non solo semplici miniere per l’estrazione di materie prime, ma vere e proprie infrastrutture strategiche.

Per quanto l’Africa sia una vera e propria miniera di materie essenziali per la stragrande maggioranza dei settori oggi strategici, con il piano della Belt and Road Initiative (in italiano Nuove Vie della Seta), si vorrebbe creare una rete di vie commerciali e finanziarie che unisca ben tre continenti: Africa, Europa e Asia.

Per permettere ciò, tutti devono essere allineati tra loro a livello infrastrutturale: stessi mezzi, stessa qualità e stessa complessità. Da qui l’urgenza di costruire in Africa strade, sistemi di telecomunicazione, ferrovie, strutture sanitarie, e anche di sostenere la creazione di imprese, holding ed economie interne stabili.

Stabili ma sempre assoggettate alla Cina. Oltre ai contratti di sfruttamento delle materie prime (dal petrolio al gas, fino alle terre rare), per tenere ben salda la leadership cinese su questi paesi il Dragone ha utilizzato due strategie finanziarie molto controverse: il land grabbing e il prestito “capestro”.

Il primo prevede il progressivo accaparramento di terre e, in particolare, delle relative risorse, tramite privatizzazioni, acquisizioni e sfruttamento di ampi territori.

Non avendo un forte potere contrattuale, molti stati africani cedono le proprietà a prezzi molto contenuti, dando modo alla Cina di poter mantenere la propria produzione locale ai suoi attuali livelli.

Il secondo invece prevede nel garantire ai Paesi poveri o in via di sviluppo prestiti “agevolati” dell’ordine di decine di miliardi, per svilupparsi in tempi brevi.

Come riporta Geopop, dal 2000 al 2019, i prestiti cinesi hanno raggiunto i 153 miliardi di dollari nei soli Stati africani. L’80% di questi finanziamenti riguarda opere infrastrutturali, dall’energia, ai trasporti, alle telecomunicazioni.

Essendo però il processo di stabilizzazione economica notoriamente lungo, la Cina ottiene come clausola di insolvibilità l’obbligo di consegnare le infrastrutture pubbliche finanziate al proprio controllo.

Per quanto un Paese possa tranquillamente negare il pagamento di un debito, soprattutto se capestro come quest’ultimo, in una situazione del genere sarebbe una mossa fatale, soprattutto quando si detiene una totale dipendenza commerciale come quella creatasi con la Cina.

Dove investe la Cina in Africa

Per arrivare a questo livello, però, la Cina ha dovuto cominciare molto prima rispetto ad altri attori economici, e senza nemmeno ottenere grossi profitti all’inizio.

Le prime avvisaglie di influenza cinese nel continente si segnalano fin dagli anni Sessanta e Settanta, molto timide a causa della Guerra Fredda e del blocco tra le due superpotenze dell’epoca: URSS e USA.

Solo durante i primi anni dell’era della globalizzazione, a inizi millennio, la sua penetrazione in Africa è stata più incisiva, anche grazie all’ingresso di Pechino nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (2001).

Ad oggi il grosso degli investimenti cinesi riguardano non tanto i Paesi più ricchi di risorse, come ad esempio Nigeria, Guinea Equatoriale, Namibia e Sud Africa, ma anche con quelli più poveri, come Eritrea, Uganda, Sudan e Kenya. Il motivo è facilmente riconducibile all’utilizzo del land grabbing e del prestito “capestro”.

Nel caso invece della Repubblica di Gibuti, dietro questa mossa c’è anche una questione fortemente geopolitica.

Si conti che nel 2017 avvenne l’apertura della prima base militare cinese nella piccola ma strategica Repubblica di Gibuti, incastonata tra Eritrea, Etiopia e Somalia e affacciata tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Apertura che porta a culmine un controllo territoriale iniziato nel 2008, per una questione di “sicurezza marittima antipirateria”.

 In realtà è la base militare svolge non solo una funzione di supporto alle operazioni antiterrorismo e di mantenimento della pace, ma anche di controllo commerciale, visto che nelle vicinanze si trova lo Stretto di Bab el-Mandeb, uno dei colli di bottiglia delle rotte del commercio internazionale.

Il problema in questo caso è che nella zona ci sono anche altre basi straniere, come quelle francesi, giapponesi, statunitensi, persino italiane.

Nel futuro si potrebbero aggiungere anche quelle indiane e arabe, ma con una così grande concentrazione di basi in una zona così ristretta il rischio che l’area diventi una polveriera è quasi assicurato. E già in parte lo sta diventando, almeno per quel che succede oggi in Niger.

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