La Flat Tax al 15% (non) è un affare: ecco quanto si risparmia a fine anno

A conti fatti, la flat tax al 15% non sempre conviene, se rapportata al regime ordinario. Ecco quanto si risparmia a fine anno.

Da anni è disponibile per tutti i lavoratori autonomi la possibilità di aprire una partita IVA con tassazione fissa al 15%.

Si tratta appunto di flat tax, una “tassa piatta” che, a detta dei suoi sostenitori, dovrebbe garantire maggior respiro a chi si trova oppresso dal regime ordinario IRPEF, e dalle sue aliquote. E garantire a fine anno un risparmio concreto per tutti gli autonomi e professionisti con regime forfettario.

In realtà non sempre la flat tax garantisce il massimo del risparmio, specie se si rapporta il regime forfettario con quello ordinario. Infatti come ci sono vantaggi del regime ordinario, a sua volta ci sono svantaggi nella flat tax.

La Flat Tax al 15% (non) è un affare: ecco quanto si risparmia a fine anno

Di recente il Centro Studi dell’Università Cattolica ha condotto una serie di analisi per comprendere fino a quanto si possa risparmiare con le attuali disposizioni sul regime forfettario, ovvero una flat tax al 15% ma solo entro 85.000 euro (65.000 euro fino al 2022).

Nel caso di un elettricista:

  • se assunto con contratto alle dipendenze, pagherebbe (senza detrazioni) 19.250 euro di tasse;

  • se assunto come partita IVA a regime forfettario, pagherebbe 12.750 euro di tasse.

In pratica un risparmio di 6.500 euro. E il risparmio arriva a 10mila euro se vengono decurati anche imposte e contributi, diversi tra forfettario e ordinario.

Anche nel caso di un consulente informatico il risparmio è evidente, arrivando anche a 3.600 euro sulle imposte pagate con la flat tax al 15%, che diventano 5.500 se al netto di imposte e contributi.

Solo guardando ai ricavi, il sistema è conveniente, perché si può arrivare a risparmiare dai 2.000 euro con ricavi da 40mila euro, fino ad un massimo di 8.500 euro se si raggiunge il tetto massimo di 85mila euro.

Ma, attenzione, solo da un punto di vista dei ricavi. Perché il problema della flat tax è che è un affare solo per chi non ha problemi con le spese di servizio (acquisto macchinari, hardware, software…) e con le spese quotidiane (oneri familiari, automobili, mobili…)

Infatti bisognerebbe rimarcare ancora una volta la differenza tra questi due tipi di regimi, e i loro pro e contro.

La differenza tra regime ordinario e flat tax al 15%

La principale differenza tra i due regimi è nell’applicazione delle aliquote. Il regime ordinario segue il criterio di proporzionalità, per cui più l’imponibile è alto, più è alta la tassazione e la quota da dare allo Stato.

Per l’IRPEF 2022, si va da una percentuale minima del 23% per i redditi fino a 15mila euro fino al 43% per quelli sopra i 50mila euro.

Ma questo ovviamente una volta calcolate le varie detrazioni e gli oneri a proprio carico, oltre a varie agevolazioni e contributi sociali a seconda delle proprie condizioni. Questo vale anche per chi è partita IVA ma sotto regime ordinario.

Il vantaggio va tutto al dipendente se le tasse vengono pagate dal datore di lavoro, che agisce come sostituto d’imposta, pertanto avrebbe la garanzia di avere sempre uno stipendio netto ogni mese.

Se invece si volesse procedere al regime forfettario, si ha il beneficio assicurato di pagare un’imposta sostitutiva all’IRPEF al 15%, o addirittura al 5% nei primi 5 anni di attività.

Ma non puoi scaricare nulla: né spese mediche, né spese di ristrutturazione, e nemmeno gli interessi del mutuo.

Come unica “detrazione” si ha solo le spese previdenziali, calcolare direttamente sul tuo coefficiente di redditività. In questo caso, l’associazione della tua partita IVA ad un codice ATECO è imprenscindibile, e così la percentuale fissa prevista dal coefficiente per calcolare il tuo reddito imponibile.

Se il tuo codice ha un altissimo coefficiente, non si può abbassare. A seconda dei tuoi ricavi, quello è quanto si dovrà destinare all’INPS, anche se sono lordi e se si devono affrontare delle spese urgenti.

Per questo il calcolo della flat tax al 15% o 5% può non essere sufficiente per stabile l’effettiva convenienza nel risparmio, rispetto ad un dipendente (o partita IVA) in regime ordinario.

In genere, se il fatturato è alto, si può compensare le spese non detratte con il risparmio fiscale, altrimenti può non essere conveniente rispetto ad una tassazione ordinaria.

Leggi anche: Riforma IRPEF 2023, chi ci guadagna e chi ci perde con le nuove aliquote

La fine del regime ordinario e l’inizio dell’era forfettaria

Stando al Centro Studi, l’attuale andamento fiscale fa presumere che ci si trovi davanti alla fine del regime ordinario, e all’inizio di una specie di era forfettaria:

“[…] una quota sempre più ampia di redditi […] è stata assoggettata ad una tassazione cedolare più vantaggiosa dell’imposta progressiva”.

Ma sempre il Centro Studi ha valutato il peso sociale della flat tax al 15%, almeno per quanto riguarda i compensi e i rapporti aziendali tra “dipendente autonomo” e datore di lavoro.

Se assunti con contratto da collaboratore esterno, e quindi a partita IVA, le aziende possono compensare il maggiore reddito con il rischio d’impresa che non ha il dipendente, protetto dalle coperture assicurative altrimenti a suo carico.

E non solo. Il timore è anche di creare vere e proprie distorsioni sul mercato del lavoro, intaccando la solidità della forma “impresa“: tutti che agiscono singolarmente, e non più secondo sistemi efficienti di economie di scala e sinergie.

Oltre al fatto di alimentare il fenomeno delle “false partite IVA“, che non garantisce stabilità economica equità sociale.

Infatti si teme che, con un’equità sociale sempre più compromessa, si possa stimolare indirettamente l’evasione fiscale.

Il Governo stesso ha cercato di venire incontro ad entrambe le parti, provando a ridurre il cuneo fiscale per i dipendenti e ad allargare il limite reddituale per la forfettaria. Anche se con esiti molto controversi.

Leggi anche: Flat tax autonomi: è davvero equa? Dubbi e incognite della misura Meloni

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