L’assegno unico non risolverà il problema delle nascite

L'assegno unico per i figli è una misura palliativo che non risolve i problemi che riguardano la natalità influenzata dalla precarietà e disparità di genere.

Una delle principali novità introdotte dal governo Draghi riguarda l’assegno unico per i figli, entrato in vigore il 1°gennaio 2022. 

Il provvedimento, in ritardo rispetto al resto d’Europa, ha carattere universale ed è stato introdotto prima di tutto per sostenere la bassa natalità del Paese.  

Gli ultimi dati sulla povertà lavorativa, diffusi dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, hanno riaccesso l’attenzione sulla condizione delle donne dietro cui si nascondono le reali cause che soffocano le nascite e che la pandemia ha solo acuito. 

Assegno unico per i figli, ferma la natalità italiana

L’Italia non è un paese per giovani, certo, ma non lo è neppure per fare i figli. I dati diffusi dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) sull’andamento della natalità confermano il calo dei nuovi nati nel 2020 e nel 2021.  

Dall’inizio della pandemia sono stati appena 404.892, 15mila in meno rispetto al 2019. I concepimenti si sono drasticamente ridotti con l’emergenza sanitaria, come rivelano le statistiche negative nel mese di novembre e di dicembre 2020 in termini di nascite: rispettivamente -8,3 per cento e -10,7 per cento rispetto al 2019. 

Nel 2021 “le minori nascite – si legge nel rapporto – sono già 12mila e 500, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo del 2020”. 

Sale l’età media delle donne italiane che hanno il primo figlio: 31,4 anni mentre scende allo stesso tempo il “numero medio di figli per donna”. Nel 2020 1,24, rispetto al periodo compreso tra il 2008 e il 2010 in cui si registrava l’1,44. 

La crisi demografica, però, ha radici lontane che nulla hanno a che fare con il Covid-19. Inoltre, il calo delle nascite, complessivamente 200mila in meno dal 2008, è legato principalmente alle coppie italiane. 

Le giovani donne, sottolinea l’Istat, sono sempre meno. Il peggior calo demografico del nostro Paese si è registrato agli inizi degli anni Novanta. Il picco nel 1995 quando l’Istat evidenziò 1,19 figli per donna. 

La fotografia attuale sulla natalità del Paese è il frutto di un fenomeno sociale storico di lungo periodo, definito baby bust, di cui la politica non si è mai occupato. Oggi, l’assegno unico per i figli è solo palliativo. 

Per anni, a sostenere la demografia del Paese ci hanno pensato gli stranieri. La incidenza della immigrazione sul tasso di natalità, spiega l’Istat, è stata importante a partire dagli anni Duemila: ma “l’apporto positivo…sta lentamente perdendo efficacia”.

Due decenni dopo, le famiglie degli stranieri, numerose, non bastano più a colmare il vuoto demografico dell’Italia. La popolazione straniera trasferitasi nel nostro Paese nei primi anni Duemila è invecchiata e il numero delle donne in età fertile si è assottigliato. 

Assegno unico per i figli, il problema è l’occupazione femminile

Da sempre le donne italiane percepiscono meno degli uomini. Una situazione che rispetto al resto d’Europa è più marcata, anche a causa di un mercato del lavoro in generale difficoltà. 

Tra il 2017 e il 2018, Oxfam denunciava come una donna su quattro nel nostro Paese fosse ancora vittima di situazioni di discriminazioni sul luogo di lavoro.

Il salario era il principale fattore di disparità a cui si aggiungevano differenze nel trattamento sui luoghi di lavoro, penalizzanti per le prospettive di una carriera professionale. 

Cinque anni fa, quindi, il 10 per cento delle donne occupate in Italia era già in gravi difficoltà economiche: “ovvero donne che pur lavorando vivono in un nucleo familiare, con un reddito disponibile al di sotto della soglia del rischio povertà”. 

Rispetto all’accesso al mercato del lavoro, alla retribuzione e all’avanzamento di carriera delle donne, l’Italia, si conferma essere uno dei peggiori paesi europei. Secondo il World Economic Forum, 118esima su 142 Stati al mondo. 

Lo studio commissionato dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è molto pessimista sulla occupazione femminile.  

Nel 2021 infatti la maggior parte delle donne è discriminata perché ha figli, soprattutto, se sono giovani di un’età compresa tra i 24 e i 35 anni.

Come accadeva tra il 2017 e il 2018, per le giovani madri italiane trovare un’occupazione è molto difficile. Non c’è da stupirsi, quindi, che in Italia oggi meno del 50 per cento della popolazione femminile abbia un posto di lavoro. 

Un calo che, complice anche la pandemia, ha bruciato in parte i pochi progressi fatti, confermando invece la generale condizione sociale e occupazionale negativa delle donne italiane.   

Nel 2016 una donna su quattro già svolgeva delle mansioni al di sotto della sua qualifica professionale o formativa.

Il mismatch, fenomeno diffuso nell’attuale mercato del lavoro tra i giovani, è acuito tra le donne che nel 70 per cento dei casi sono costrette al part-time involontario, a causa di altri fattori, quali:  

  • i lavori domestici sono ancora affidati nella maggior parte dei casi alle donne (80 per cento);
  • il 90 per cento delle donne si occupa dei figli.

Nel dicembre 2021 l’Istat ha confermato il peggior dato di sempre sull’occupazione femminile che solleva diversi interrogativi sulla ripresa economica del Paese, caratterizzata da solo contratti a termine e zero posti di lavoro per le donne. 

Assegno unico ai figli, precarietà e salari bassi

La crescita dell’occupazione italiana è puramente quantitativa ma non qualitativa: il boom dei contratti che hanno riportato il Paese al periodo pre-pandemia sono tutti a tempo determinato, moltissimi quelli con una durata irrisoria, anche solo di una settimana.  

Incidono molto anche le retribuzioni, molto basse che, secondo l’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (Inps), non hanno mai un carattere transitorio. La pandemia infatti ha precarizzato il mercato del lavoro, ma molti degli occupati italiani erano già poveri nel periodo pre Covid ed è difficile che riescano ad uscire da questa condizione. Oggi più che mai nel mezzo di una nuova crisi. 

Logico, quindi, che senza adeguate prospettive future la famiglia diventi una scelta secondaria, accantonata in un angolo anche con la riforma sull’assegno unico per i figli che avrebbe lo scopo di contrastare la povertà familiare, e non quella lavorativa, per aiutare le giovani coppie a fare figli. 

I dati dello studio commissionato dal ministero del Lavoro correggono quelli resi noti da Eurostat secondo cui il numero dei lavoratori poveri si aggirerebbe attorno al 12 per cento.

Aggiungendo i redditi individuali a quelli delle famiglie più povere, il gruppo di esperti, a cui è stato affidato lo studio, ha calcolato che oltre il 24 per cento dei lavoratori italiani è esposto al rischio della povertà relativa. Il doppio di quelli censiti dall’Eurostat. 

Ed è qui che si chiude il cerchio: perché nella maggior parte dei casi sono donne, peggio se hanno a carico figli molto piccoli. 

Assegno unico per i figli, fattori economici e culturali  

L’assegno unico per i figli è stato introdotto dal governo Draghi anche senza ISEE consentendo a chiunque di presentare la domanda a prescindere dal reddito. In questo caso, si ha diritto solo all’importo minimo pari a 50 euro per ciascun figlio minore

Con questo tipo di impostazione, guadagnano il sostegno anche le famiglie con un reddito medio-alto, mentre i nuclei con redditi più bassi dovranno dimostrare presentare l’ISEE per ottenere il contributo economico per ciascun figlio minore a carico.   

La riforma prevede un aumento dell’assegno a partire dal terzo figlio, con l’obiettivo di sostenere le famiglie numerose e spingere le coppie italiane a fare più di un figlio, senza distinzione di reddito. Una eccezione al principio della progressività del sistema tributario, sancito dalla Costituzione.  

Il carattere universale dell’assegno unico per i figli, misura che è stata già adottata dalla Svezia, dalla Germania e dalla Francia, non influenzerà l’andamento della natalità, fino a quando in Italia perdurerà la povertà lavorativa tra le donne e tra i più giovani. 

Da molti anni languono gli investimenti sociali per consentire alle madri di conciliare i tempi familiari con quelli professionali: ne è l’emblema il numero bassissimo di asili nido.  

E così, mentre la maggior parte delle donne oggi lavora meno e lavora male, anche se in percentuale sono più qualificate degli uomini, si è generato un doppio binario.   

Uno su cui viaggiano le donne che vorrebbero fare un figlio ma non sono nelle condizioni di poterlo fare e decidono di procrastinare il concepimento a causa della precarietà e dei bassi salari. L’altro invece su cui viaggiano donne che non vogliono figli – childfree – anche perché sanno che costerà loro in termini di carriera.  

Assegno unico per i figli, pianificare la vita familiare 

Nei paesi occidentali la donna ha conosciuto il progresso, libera di potere programmare la propria vita anche al di fuori di un nucleo familiare. Anche i miglioramenti sociali e culturali conquistati dalla popolazione femminile europea hanno spianato la strada alla denatalità e a una riduzione progressiva del numero dei figli per donna.  

A livello globale, è l’Occidente a frenare la crescita della popolazione che, nonostante la pandemia, ha raggiunto quest’anno gli otto miliardi di individui. Secondo Il Population Reference Bureau il mondo si accinge ad avvicinarsi ai dieci miliardi entro il 2050 soprattutto grazie alla natalità nei paesi emergenti: India e Cina. 

L’Unione europea, che in concomitanza con la pandemia ha avviato un dibattito sull’invecchiamento del Continente, nel 2050 sarà popolata per la maggior parte da over 65. Con una esplosione della spesa sociale, l’esigenza di investimenti ingenti a sostegno dei più anziani e pochissimi giovani in età lavorativa e in età riproduttiva.

Sul piano economico l’Unione europea si ritroverebbe con una società non più sostenibile. E l’Italia sarebbe tra i primi paesi a soccombere, con una popolazione già molto anziana (in media 44-45 anni). In questo contesto, l’assegno unico non è solo un palliativo ma una sciocca misura di “bandiera” resa universale per non creare differenze che, di fatto, sono sempre più importanti tra ricchi e poveri.

Lo Stato dovrebbe tenerne conto. 

Le donne e i giovani devono potere avere il diritto di pianificare la vita familiare, un diritto non codificato che la precarietà e le disguaglianze sviliscono. E con esso i progetti e il futuro di milioni di donne e di giovani. 

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