I messaggi WhatsApp come prova in tribunale: tutto ciò che c’è da sapere

I contenuti delle conversazioni di WhatsApp possono diventareuno strumento molto utile all’interno di un processo. Vediamo come.

La tecnologia è ormai parte integrante delle nostre vite, ed è divenuta praticamente indispensabile nella gestione quotidiana di faccende di ordine lavorativo, familiare, sociale e così via. Ciò, d’altro canto, può risultare significativo in quei casi in cui controversie tra individui o (peggio) veri e propri illeciti richiedano la decisione di un giudice.

L’attitudine che hanno i nostri smartphone di tenere traccia di tutto ciò facciamo tramite essi può infatti avere un grande impatto all’interno di un processo, sia esso di natura civile o penale. E, naturalmente, all’interno di queste attività hanno un posto preminente le varie applicazioni di messaggistica che utilizziamo quotidianamente per scambiare informazioni, pareri, e – sì – anche per litigare furiosamente.

Ciò significa che i contenuti delle conversazioni di WhatsApp possono diventare a tutti gli effetti uno strumento molto utile all’interno di un processo, allo scopo di chiarire i fatti, effettuare contestazioni o comprovare la veridicità delle dichiarazioni di testimoni o imputati. A patto, però, di soddisfare alcuni importanti requisiti. 

Il valore legale di WhatsApp

Il nostro ordinamento consente l’ingresso all’interno di un processo soltanto di quegli strumenti probatori i quali siano stati effettivamente previsti e disciplinati dal legislatore. Secondo tale principio — chiamato appunto principio di tipicità dei mezzi di prova — in altri termini, risultano valide in tribunale soltanto quelle prove la cui tipologia sia stata esplicitamente citata nel codice di procedura.

I principali strumenti probatori sono, com’è noto, le prove documentali e l’esame dei testimoni.

Chiaramente la categoria delle prove documentali, intese come oggetti materiali (testi, fotografie e così via) che contribuiscono alla rappresentazione di un fatto, può essere estesa a elementi di natura digitale. Come, appunto, le conversazioni avvenute tramite WhatsApp e salvate sullo smartphone.

La V sezione penale della Corte di Cassazione, esprimendosi sulla questione nella sentenza n° 49016 del 19 giugno 2017, ha infatti chiarito che, trattandosi a tutti gli effetti di una «forma di memorizzazione di un fatto storico», la conversazione di WhatsApp può legittimamente ritenersi una prova documentale. E tuttavia, ha anche precisato che

«l’utilizzabilità della stessa è condizionata dall’acquisizione del supporto — telematico o figurativo — contenente la menzionata registrazione.»

In altri termini: occorre acquisire, durante il dibattimento, anche il supporto fisico (ossia lo smartphone) sul quale è presente la conversazione al fine di poterne verificare l’attendibilità.

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La dimostrazione di veridicità delle conversazioni di WhatsApp

Un ulteriore e interessante sviluppo giurisprudenziale è quello che segue alla pubblicazione dell’ordinanza n° 19155 della sezione I della Corte di Cassazione (17 luglio 2019). Qui, infatti, viene sancito un importante principio, ossia che, in sede di processo civile:

«lo “short message service” […] forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime.»

Ciò, in altri termini, costituisce una vera e propria inversione dei ruoli, poiché colui il quale intenda utilizzare una conversazione WhatsApp come prova all’interno di un processo non è con ciò tenuto a dimostrare l’autenticità del documento. Al contrario, esso è da ritenersi valido fintantoché non vi sia una circostanziata, oggettiva, chiara ed esplicita contestazione rispetto alla sua veridicità proveniente della controparte.

Come produrre in giudizio i messaggi di WhatsApp

Per produrre in giudizio le chat occorre innanzitutto distinguere tra processo civile e penale. Le procedure, nei due casi, sono infatti differenti.

Per quanto riguarda l’acquisizione di tale prova documentale in sede penale, occorre infatti, come già accennato, acquisire anche il supporto telematico contenente la conversazione che avrà valore probatorio. Ciò affinché gli inquirenti possano effettivamente sottoporre il supporto alle dovute verifiche e sancire l’autenticità della prova.

D’altra parte, sempre la Corte di Cassazione (questa volta la sezione VI penale), con la sentenza n°1822 del 17 gennaio 2020, ha stabilito che ha valore di prova in sede di processo penale anche «la riproduzione fotografica della schermata delle comunicazioni», e pertanto possono essere acquisiti anche gli screenshot dello smartphone contenenti le conversazioni.

Per quanto riguarda il processo civile, i criteri, come già abbiamo visto, sono meno stringenti. Infatti, per includere il contenuto dei messaggi all’interno del dibattimento, è possibile:

  • convocare un testimone che abbia letto i messaggi e che possa riportarne il contenuto;
  • effettuare uno screenshot delle conversazioni;
  • convocare un perito che, in qualità di consulente, esaminerà il supporto telematico e riporterà su di un documento la trascrizione delle conversazioni utili;
  • produrre una copia autenticata ad uso legale delle conversazioni che si intendono utilizzare come elementi probatori.
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