Energia i prezzi volano e le imprese chiudono

Ragioni e pericoli di un rischio da #500milaposti, chi paga la #bolletta, cosa rischiamo, cosa può fare Roma e cosa no

Meglio un uovo oggi o una gallina domani? Probabilmente dipende da quanta fame hai… e di fame c’è né molta nonostante la ripresa a singhiozzo minacciata dalla pandemia e dall’esplosione dei prezzi energetici. Così tocca fare due conti in tasca e ammettere che le buone intenzioni vanno applicate con buon senso, per evitare un inutile martirio. Energia dunque e una visione di medio e lungo termine che salvi il salvabile, senza sacrificare il futuro, o almeno sacrificandolo il meno possibile.

Le pagine dei giornali sono già zeppe da mesi dei rincari dell’energia che minacciano i consumi e rischiano di chiudere la claire delle imprese che erano sopravvissute alla crisi.

Da settembre alla fine di questo gennaio si prevede che un chilo di pasta balzi del 38% a 1,52 euro. Lo calcola oggi sul Sole 24 Ore Vincenzo Divella, amministratore delegato dell’omonimo gruppo pugliese, che stima non solo aumenti del prezzo del gas (+300% come per l’elettricità) ma anche del costo del cellophane (+25%).

La CGIA di Mestre, in un accurato report recente, ha stimato un aumento dei costi dell’energia elettrica per le imprese italiane di 36 miliardi di euro quest’anno. Con una tariffa media dell’elettricità che potrebbe volare a 150 euro per MWh per le imprese, rischia di essere una bastonata pesantissima. Qualcosa come 8,5 miliardi di euro in più per le imprese lombarde, 3,9 miliardi per le venete, 3,5 miliardi di euro per le emiliane, 2,9 miliardi per le piemontesi. Uno sgambetto al cuore dell’industria italiana insomma nelle regioni con il Pil maggiore.

Caro energia: le industrie più colpite

C’è tutto l’essenziale settore della metallurgia (dalle acciaierie alle fonderie con il loro forni energivori) in crisi. Ma anche il più polverizzato mondo del commercio (negozi, botteghe, alberghi già piagati dal Covid), quindi i servizi come i cinema o i teatri, le discoteche o i parrucchieri. A soffrire nell’alimentare non sono solo i pastifici, ma anche chi produce le eccellenze del made in Italy come i prosciuttifici o i panifici o i mulini). C’è anche la trasversale industria della logistica e quella chimica. Insomma il disastro ha l’aria di essere democratico come una pandemia e le soluzioni all’orizzonte in concreto sono molto poche e molto divisive.

La corsa del PUN, il prezzo unico dell’energia italiana sul mercato, è più che altro una scalata, dai meno di 60 euro a MWh visti da tra il 2013 e il 2020 si è volati fino a 125,5 euro nel 2021. E per giunta è una media annuale perché l’exploit dello scorso anno si è chiuso con una media di dicembre di ben 281,2 MWh.

Le imprese consumano in Italia oltre il 70% dell’elettricità, 217.334 GWh nel 2019. Sul totale dei consumi elettrici italiani il 37,9% è del manifatturiero e il 33,5% dei servizi. La metallurgia da sola copre il 7,4% (22.339 GWh l’anno), il commercio il 7,1% (21.385 GWh). Ma questi stessi consumi sono visti in crescita in termini di costo di ben 36 miliardi di euro quest’anno (al netto dell’IVA), almeno se si dà credito alle stime di un PUN medio nel 2022 di 150 euro per MWh. Potrebbe però essere persino un calcolo ottimistico: se il PUN salisse a 200 euro, si avrebbe un rincaro monstre di 90 miliardi di euro.

Con effetti prevedibili sulle chiusure e sull’occupazione. La stessa CGIA ha denunciato a fine 2021 il rischio di una perdita di ben 500 mila posti di lavoro in Italia a causa dell’impatto del caro-energia sui settori energivori. Vetro, carta, ceramica, cemento, plastica, laterizi, meccanica pesante, alimentari, chimica… i mattoni angolari della nostra industria logorati dalla lievitazione dei costi fissi. Insomma la valanga e le industrie chiedono sempre più pressanti un aiuto al governo.

La legge di bilancio ha già stanziato circa 3,5 miliardi per affrontare l’emergenza bollette nel primo trimestre – ha affermato Draghi alla conferenza stampa dell’altro ieri – È previsto vengano presi altri provvedimenti nel trimestre successivo e nei mesi a seguire. Come ho già detto, la via del sostegno governativo è importante ma non può essere l’unica: occorre chiedere a coloro che hanno fatto grandissimi profitti da questo aumento del prezzo del gas di condividere questi profitti con il resto della società.

Insomma il governo può fare e farà ancora, ma il problema chiama in causa anche altri attori, a partire dalle imprese che invece con i rincari dell’energia ci hanno guadagnato e che saranno chiamate (forse) a una sorta di ”contributo di solidarietà”.

Caro energia, oltre la barriera dei prossimi mesi

Il dramma è che la crisi in corso, che è globale, ma colpisce l’Italia in modo particolare, accende ancora una volta i riflettori su alcune debolezze strutturali del Bel Paese. A partire dalla dipendenza dall’estero per le forniture di materie prime energetiche. Il gas russo in primis, che come noto è intrecciato con la questione dell’Ucraina ed è spinosa questione europea in gran parte fuori dalla portata delle decisioni di Roma. Fra le novità del 2022 è da segnalare l’introduzione concreta del capacity market, teso a stabilizzare i mercati, mentre la lievitazione dei prezzi dei diritti di emissione fino a 90 euro (il costo della CO2 era di 30 euro nel pre-pandemia) va in una direzione lungimirante, ma poco attuale di fronte alle crisi sul fronte dell’offerta.

Oltretutto la green strategy dell’Europa rischia di essere soffocata nella culla dalla crisi economica e dal ricatto dei prezzi dell’energia. Non a caso proprio in questi giorni si dibatte sull’introduzione di gas e nucleare nel novero delle energie considerate rinnovabili: una vistosa, ma assai pratica, ipocrisia che però divide i Paesi membri UE.

Con il suo 70% di produzione energetica dal nucleare, la Francia spinge l’acceleratore sul fronte dell’atomo, nonostante gli investimenti pubblici nella costruzione delle centrali e nello smantellamento delle centrali e smaltimento delle scorie rischino in questo settore di violare in maniera inaccettabile le norme europee sugli aiuti di Stato. L’industria nucleare francese ha già vissuto diversi disastri economici, salvandosi solo grazie ai generosi interventi dell’Eliseo in barba alle norme Ue sui sussidi pubblici, ma sarebbe folle ignorare il peso attuale e potenziale dell’atomo nell’abbattimento delle emissioni europee di CO2.

Dall’altra parte del Reno, la Germania ha già deciso (e ampiamente finanziato) l’uscita dall’atomo dopo il disastro di Fukushima e la sua sempre più decisiva trazione politica verde è fieramente avversa a una politica europea pro-nucleare. Vienna minaccia perfino di rivolgersi alla Corte di Giustizia Europea se il documento della Commissione UE a favore di gas e atomo dovesse passare. La Spagna e il Portogallo sono allineati su questa linea del no e anche il Lussemburgo è contrario al nucleare. Si rischia una spaccatura e una paralisi in un momento chiave della ripresa economica europea e proprio mentre a tutti le latitudini si implora una politica energetica comune capace, ad esempio, di contrattare in maniera unitaria gli acquisti del gas per contrastare o almeno limitare le speculazioni. Ma le spaccature vanno ben oltre.

Il terribile effetto pancaking colpisce molto l’Italia. In pratica Roma è ancorata all’hub energetico di Amsterdam, tanto da dipendere dalle quotazioni del TTF (l’hub olandese) sul gas: su di esse si calcola uno spread che porta ai prezzi del PSV (l’hub italiano del gas). Bene questo spread in pratica incorpora tutti i prezzi e costi applicati dalle varie autorità nazionali che si trovano sulla strada del gas e poiché aumentare i costi applicati al trasporto del gas verso l’estero aiuta una nazione a comprimere i propri, chi è a valle come noi paga un conto salato. Qualcosa come 1,5 miliardi di euro in più di costi, di cui la metà in carico alle imprese. Ad aprile il decreto gasivori dovrebbe dare fiato per 800 milioni di euro alle imprese più colpite, ma sicuramente la strada da fare è ancora tanta e l’Europa appare ancora fortemente divisa nel momento decisivo.

Spaccata e debole, insomma, di fronte a una crisi sistemica. A Bruxelles ancora una volta si dovrà trattare con pragmatismo e lungimiranza, una foto di Angela Merkel alla scrivania magari, per scongiurare una spaccatura che potrebbe compromettere la libertà e la ripresa economica di tutti noi.

(Giovanni Digiacomo)

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