Perché il governo rivaluta le pensioni e non gli stipendi: la “colpa” è di Amato

Il motivo per cui le pensioni vengono rivalutate e non gli stipendi è dovuta alla riforma Amato del 1992. Una "colpa" che ha aiutato il Paese.

Molti si ricorderanno che fino a qualche decennio fa tutto veniva rivalutato, pensione o stipendio che fosse.

Ed era vero, la cosiddetta scala mobile riguardava chi era titolare di un reddito da lavoro, mentre chi ha un reddito da trattamento pensionistico aveva diritto alla perequazione.

Ma questo fino a quando non venne deciso nel 1992 di fare dietrofront, e riformare totalmente il sistema delle rivalutazioni.

A deciderlo fu l’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato, e molti gliene fanno tutt’oggi una colpa se ogni anno il governo rivaluta le pensioni, e non gli stipendi.

In realtà non è “colpa” sua, ma dell’inflazione, al punto che non si poteva più continuare ad adoperare uno strumento come quello della “scala mobile”.

Perché il governo rivaluta le pensioni, e non gli stipendi

Fino al 1992 era in vigore la scala mobile, ma l’allora Governo Amato I decise di abolirla completamente. Da allora gli italiani si ritrovano per il proprio salario o pensione uno dei seguenti strumenti correttivi:

  • la perequazione per le pensioni, indicizzata dall’inflazione;

  • l’elemento distinto della retribuzione per tutti gli stipendi (EDR).

Nel caso della perequazione la pensione può aumentare in maniera sensibile, specie con un’inflazione all’8,1% come quella registrata dall’ISTAT per il 2022.

Per gli stipendi all’inizio venne utilizzata la EDR, ma dagli anni 2000 venne disposta l’indennità di contingenza (poco più di 10,33 euro), che confluì in un’unica voce retributiva inclusa nel minimo contrattuale previsto dal CCNL, con aggiornamento annuale.

A conti fatti, oggi chi ha una pensione può avere un adeguamento automatico al costo della vita, e fronteggiare al meglio i danni dell’inflazione. Di contro, chi ha uno stipendio si ritrova con un reddito più contenuto. Per il 2022 l’ISTAT stima che l’inflazione abbia “mangiato” oltre il 7% del reddito degli italiani.

E questo con un’inflazione simile a quella del 1984. Eppure anche negli anni Ottanta gli stipendi venivano adeguati grazie alla scala mobile. Il problema è che già allora si intuì che come meccanismo stava diventando controproducente.

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La storia della scala mobile e la “colpa” di Amato

Fin dalla nascita della Repubblica, gli stipendi venivano rivalutati grazie al meccanismo della “scala mobile“. Istituita previo accordo tra la Confederazione Generale dell’Industria Italiana e la CGIL, entrò in vigore nel 1946, e durò quasi 45 anni.

All’inizio la scala mobile permetteva di adeguare i salari ogni tre mesi, a seconda dell’andamento dell’Indice dei Prezzi al Consumo, uno dei più importanti indici statistici dell’ISTAT per monitorare i prezzi delle merci previste all’interno di uno specifico paniere nazionale.

Tra il 1946 e gli Anni Settanta la scala mobile non era uguale per tutti i lavoratori: variava a seconda della categoria lavorativa di appartenenza, della qualifica, dell’età e del genere del lavoratore. Solo dal 1975 in poi, con nuovi accordi tra le parti sociali, venne introdotta la scala mobile a punto unico, cioè senza più distinzioni.

Il sistema resse fino a quando non si decise di procedere ad un taglio drastico. Nel 1984 il Governo Craxi I decise col Decreto di San Valentino di tagliare 3 punti percentuali. Le opposizioni volevano impedire il taglio, addirittura il Partito Comunista Italiano indisse un referendum abrogativo nel 1985, ma vinse il NO all’abolizione del decreto, col 54,3%.

E infine l’abolizione nel 1992, col Governo Amato I, e il passaggio all’EDR e all’indennità di contingenza.

Invece le pensioni hanno sempre goduto della perequazione automatica, grazie alla riforma Brodolini del 1969, modificata parzialmente solo con le riforme Prodi (1998) e Fornero (2011).

Da allora molti si ritrovano davanti questo scenario: un continuo adeguamento delle pensioni, anche di più di un centinaio di euro al mese, e stipendi “bloccati” da decenni.

In realtà, l’attuale situazione non è colpa della riforma di Amato.

Perché alla fine non è tutta colpa di Amato

Il motivo di quest’abolizione netta nel 1992 era dettata dallo stato di necessità.

Tra il 1969 e il 1992 l’Italia manteneva ogni anno un’iperinflazione a due cifre. Solo tra il 1980 e il 1984 l’inflazione manteneva una media del 16,2% annuo (nel 1980 era addirittura del 21,2%). Troppo pericolosa per l’economia italiana, soprattutto durante il suo Secondo Miracolo Economico (1985-1995).

Tra le cause di questa iperinflazione fu la spirale inflazionistica che generava il continuo adeguamento degli stipendi.

Ad ogni adeguamento c’era un aumento della circolazione della moneta, ma se non c’era una crescita reale della produzione, una volta superata la soglia di produttività aumentava l’inflazione, e i prezzi salivano.

In effetti, grazie al taglio del Decreto di San Valentino e all’abolizione della scala mobile, l’inflazione tornò ad una soglia più sostenibile, anche se non mancarono ulteriori misure per fronteggiarla (agevolazioni fiscali, blocco delle tariffe pubbliche…).

Purtroppo nel lungo periodo non s’è provveduto a migliorare gli stipendi nazionali, aumentati a malapena dello 0,3% dal 1990 ad oggi, secondo l’OCSE.

Ma questo dipende da altri fattori, come la ridotta produttività del paese, con un PIL raramente sopra l’1% annuo (tralasciando il 6,6% del 2021, compensazione al crollo dell’anno prima), e gli eccessivi costi fiscali e previdenziali degli attuali contratti di lavoro per le imprese.

Il problema comunque rimane, perché avere stipendi fermi in piena iperinflazione rovina il potere d’acquisto del consumatore medio.

Tutto ciò non fa altro che provare come l’inflazione sia molto difficile da trattare, soprattutto per un’economia avanzata come quella italiana.

Leggi anche: Con l’inflazione alle stelle aumenta il divario tra ricchi e poveri: la conferma della BCE

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