Salario minimo costituzionale: cos’è e cosa cambia con la sentenza della Cassazione

Nell'ultima sentenza della Corte di Cassazione si ribadisce la necessità di istituire un salario minimo costituzionale per tutti. Ma cosa cambierebbe?

Abbiamo il salario minimo. O meglio, abbiamo quello “costituzionale”.

Stando all’ultima sentenza della Corte di Cassazione, è stato “introdotto” il concetto di salario minimo che sia ribadito anche a livello di Costituzione.

Per quanto possa sembrare effimero come progresso, può essere decisivo il fatto che uno degli ordini giudiziari più importanti dello Stato richieda in una sua sentenza l’applicazione di quello che potrebbe diventare un principio giuridico: avere uno stipendio giusto.

Ovviamente bisognerà vedere se da quest’esortazione giuridica emerga una volontà governativa a tradurre una sentenza in una legge.

Cos’è il salario minimo costituzionale

Negli ultimi mesi molti hanno avuto modo di comprendere cosa si intenda per salario minimo. Ma l’aggiunta del termine “costituzionale” cambia completamente il suo significato.

Secondo quanto ribadito dall’ultima sentenza della Corte di Cassazione (la n. 27711 del 2023) viene data importanza fondamentale alla valutazione giurisprudenziale dello stipendio dell’individuo, e alla necessità di appurare se uno stipendio è più o meno giusto. E questo nonostante l’assenza di una legge che ne fissa una soglia minima.

La stessa Cassazione ritiene che per quanto oltre il 90% dei contratti di lavoro siano sotto CCNL, quindi sotto contrattazione collettiva, tale copertura non basti per dimostrare la congruità di un salario.

Perché lo stipendio non è dettato dal contratto, ma da quanto risulti “proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro”, nonché “sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Da qui il dover sottolineare come il salario minimo sia “costituzionale”, cioè conforme a quanto previsto dalla Costituzione, e addirittura tutelato da essa stessa.

In quale articolo della Costituzione italiana si tratta del salario minimo

Ufficialmente non esiste un articolo specifico della Costituzione in cui parli chiaramente di come funzioni il salario minimo.

Al massimo c’è quanto ribadito dall’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce il diritto di ogni lavoratore

“[…] ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.

È un monito, una tutela costituzionale ad avere una paga giusta, ma non è un’azione concreta, che stabilisce quale sia la paga oraria o lo stipendio giusto.

Il motivo è dovuto all’interesse degli allora costituenti di non ostacolare l’azione sindacale, evitando dunque di introdurre paletti legislativi. Per questo si è voluto lasciare spazio alla stipula di contratti collettivi, stipulati a seguito di accordi con datori di lavoro e organizzazioni sindacali registrate e dotate di personalità giuridica.

Questi contratti avrebbero così avuto efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie, con tanto di tabellario contrattuale sulla paga minima prevista per tale categoria.

Va detto però che sono troppi i lavoratori in Italia sotto i 9 euro previsti dalla proposta di salario minimo. Nel loro caso, è competente il giudice per i casi di mancata retribuzione pattuita dalle parti, secondo quanto stabilito dell’art. 2099 del Codice Civile.

Ma il giudice potrebbe limitarsi a ricavare la retribuzione congrua dai minimi tabellari, gli stessi che potrebbero non garantire un salario minimo costituzionale come richiesto dalla Cassazione.

Cosa cambia con la sentenza della Corte di Cassazione

La sentenza della Cassazione punta a fare giurisprudenza, dato che ribadisce la necessità di tutela costituzionale e giuridica nei confronti del lavoratore non tutelato.

Ovviamente “fare giurisprudenza” non significa diventare legge. Senza una norma che istituisca ufficialmente il salario minimo, al massimo i giudici potranno valutare se la retribuzione portata in giudizio risulti congrua o meno secondo indicatori oggettivi.

Se si parla di uno dei tanti contratti fuori dai CCNL, si può valutare i tabellari dei contratti affini, oppure indicatori statistici per misurare la soglia di povertà, fino ai valori NASPI o CIG, e addirittura ai dati Uniemens censiti dall’INPS per il salario medio.

Questo però non è garanzia di celerità per la risoluzione di un’ingiustizia. Senza una norma trasparente, i tempi burocratici diventerebbero così lunghi che risulterebbe alla fine sconveniente andare a processo, anche per paura di ritorsioni da parte del datore di lavoro.

E dire che come paese si è andati vicino all’introduzione di un salario minimo. Col Jobs Act (legge 183/2014), era stata disposta all’articolo 1, comma 7, lettera g, una norma di delega al Governo per introdurre un salario minimo legale nei settori non regolamentati dai contratti collettivi. Ma mancarono i decreti attuativi, più la volontà sindacale.

E il problema rimase, con CCNL che seppur garanti di minimi tabellari, non sono oggi in grado di intercettare i nuovi bisogni, soprattutto quelli gravati dall’inflazione. Inoltre parliamo degli stessi contratti su cui pende un assurdo ritardo nei rinnovi, uno dei tanti motivi per cui gli stipendi non aumentano in Italia.

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