La definizione di fast fashion nasce negli anni Ottanta, in occasione del primo negozio della catena Zara, destinato a cambiare per sempre la concezione della moda e degli acquisti di capi d’abbigliamento su scala globale.
Oggi, le cose sono notevolmente cambiate, e il fast fashion inizia a mostrare i suoi lati più problematici, in particolare riguardo al colosso cinese Shein.
Proprio per questo, le Nazioni Unite hanno lanciato una sfida social molto particolare, per sensibilizzare i cittadini sui rischi di un uso non consapevole del fast fashion.
Scopriamo allora in cosa consiste la challenge, e perché è stata ritenuta necessaria proprio dall’ONU.
Una sfida social contro Shein per dire stop al fast fashion
La sfida social è stata lanciata dall’Onu per promuovere lo stop del fast fashion, in particolare quello di Shein, in collaborazione con l’ONG Remake.
La sfida social è stata denominata #NoNewClothes, e già a partire dall’ashtag è piuttosto semplice comprendere in che cosa consista e quale sia il suo obiettivo.
La sfida intende infatti porsi contro il modello di fast fashion promosso da Shein e da altri brand, invitando i consumatori a non comprare abiti nuovi per 90 giorni, e soprattutto non da piattaforme o marchi associati al fast fashion.
Sul sito di Remake, si trova infatti la seguente spiegazione in lingua inglese:
Sfidandoti a non comprare “vestiti nuovi”, che si tratti di non comprare nulla o di dare la priorità al riutilizzo e all’usato, decidi tu! – ridurrai la tua impronta di carbonio, costruirai sane abitudini psicologiche, limiterai i rifiuti che mandi in discarica e manterrai i tuoi sudati guadagni al sicuro da aziende che non forniscono ai loro lavoratori dell’abbigliamento salari dignitosi o condizioni di lavoro sicure.
Partecipare alla sfida è semplicissimo: basta infatti iscriversi alla petizione compilando il modulo presente sul sito dell’organizzazione, e poi ovviamente impegnarsi a rispettare l’impegno preso.
Ma quali sono, in concreto, i rischi del fast fashion, che le Nazioni Unite ritengono tali da sponsorizzare una sfida social di questo tipo?
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Perché dovremmo tutti aderire a #NoNewClothes
I rischi del fast fashion identificati dalle Nazioni Unite sono molteplici, e stanno già iniziando a produrre effetti preoccupanti in diversi settori.
In primo luogo, è noto come i lavoratori del fast fashion vengano pagati infinitamente meno rispetto ai lavoratori di altri brand (si parla di 50 centesimi all’ora per Shein). Ogni volta che si acquista un articolo per un prezzo sorprendentemente basso, dunque, si dovrebbe tenere a mente questa situazione.
Inoltre, è risaputo come Shein utilizzi design e progetti di stilisti e creativi senza pagare un corrispettivo adeguato in termini di diritti, agendo quindi a due diversi livelli di sfruttamento.
Immane è però soprattutto l’impatto ecologico. Le vendite a poco prezzo spingono gli utenti ad acquistare grandi quantità di abiti, che però non hanno in media una vita particolarmente lunga, vuoi perché di bassa qualità (e ripararli costerebbe più del prezzo originale), vuoi perché fortemente legati alla moda del momento (e il loro prezzo bassissimo permette di acquistarne di nuovi, più attuali, senza grandi problemi).
Il risultato è dunque un moltiplicarsi di discariche ricolme di abiti di Shein e dei brand di fast fashion (invenduti, rimandati indietro o semplicemente buttati) impossibili da reciclare perché i materiali sono di bassa qualità, come mostra questa foto della spiaggia di Accra, in Ghana:
Se è vero che Shein ha organizzato la sua produzione per venire incontro a diverse tipologie di corpi, dai plus size ai “petit” (cosa che negli altri marchi purtroppo manca ancora), siamo dunque lontanissimi da una reale idea di inclusività, che passa in primo luogo dal rispetto e dalla ricerca di uguaglianza per tutti.
Acquistare fast fashion ha dunque innumerevoli effetti negativi, che vanno conosciuti e compresi prima di effettuare un acquisto; e proprio a questo serve la challenge #NoNewClothes, che mira a favorire una presa di coscienza generale sulle conseguenze delle proprie azioni (e a rendersi conto che una lotta reale al cambiamento climatico passa anche dalla moda).
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