La Fed è disposta alla recessione per contenere l’inflazione

Sullo sfondo resta un inizio d’anno tanto (prevedibilmente) volatile, quanto poco illuminante per le prospettive future.

Sullo sfondo resta un inizio d’anno tanto (prevedibilmente) volatile, quanto poco illuminante per le prospettive future: dal Dopoguerra, si registrano soltanto altri 8 episodi analoghi all’andamento dei primi tre mesi di quest’anno.

I mercati azionari si concedono una pausa rigeneratrice, dopo un vigoroso rimbalzo. Piazza Affari consegue un massimo, non a caso a sessanta giorni dal picco di inizio anno, ed a ridosso dell’orbita della media mobile a 200 giorni: che a gennaio ha vanamente agito da sostegno, prima di essere spazzata via dalla liquidazione successiva.

Emerge un messaggio di fondo. La capitolazione degli investitori di alcune settimane fa, a ridosso dei supporti strutturali, ha favorito una reazione che però ora risulta priva di propellente, mentre le incertezze macroeconomiche suscitano alcuni interrogativi in capo agli investitori. Venerdì il dato sulle buste paga create a marzo negli Stati Uniti rafforza la determinazione della Fed circa l’inasprimento della politica monetaria: scontato un aumento del Fed Funds rate da 50 punti fra un mese, mentre non manca chi suggerisce una determinazione anche maggiore.

La priorità della lotta all’inflazione, che però trae origine da disfunzioni sul lato dell’Offerta, su cui una banca centrale ben poco può; non deve però far perdere di vista il rischio, apparentemente accettato, di una mortificazione della Domanda che arrivi al punto di rischiare una recessione vera e propria. Sebbene ancora l’80% dei PMI manifatturieri si sia collocato il mese scorso oltre l’asticella dei 50 punti; soltanto 9 economie al mondo su 25 hanno fatto registrare progressi a marzo.

In media il barometro dell’attività manifatturiera è calato di 1.4 punti rispetto a febbraio, e non si assiste ancora ad un passaggio di testimone; con il PMI medio delle economie EM ex China situato ad uno scoraggiante 50.4 punti, e con Pechino che si colloca mestamente in territorio negativo: il PMI posizionandosi nel decile più basso di tutte le rilevazioni conseguite dal 2008 ad oggi.

Ecco perché il nostro modello di asset allocation, pur avendo nelle passate settimane rivisto l’allocazione in azioni, conferma al 50% un certo sottopeso. Il modello previsionale conferma la prospettiva di un ripiegamento nella settimana corrente, prima di riprendere il cammino rialzista.

Sullo sfondo resta un inizio d’anno tanto (prevedibilmente) volatile, quanto poco illuminante per le prospettive future: dal Dopoguerra, si registrano soltanto altri 8 precedenti di saldo negativo del primo trimestre, a fronte di un mese di marzo positivo, seguito a due mesi dal saldo invece negativo. Se da un lato il successivo mese di aprile è risultato positivo in tutti i casi tranne uno; fino alla fine dell’anno nelle circostanze descritte lo S&P500 è salito in appena 5 casi su 8; conseguendo una performance virtualmente nulla rispetto al progresso preventivabile nei prossimi trenta giorni. Quanto basta per sconfessare le aspettative entusiaste maturate nella comunità degli strategist.

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